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Simone Moro: dopo il Nanga Parbat, la Siberia a -71°
Scritto da:
Redazione BookToBook
11 Ott 2018
Simone Moro e il Nanga Parbat saranno uniti per sempre.
Ma nel 2018 Simone Moro ha accantonato il Nanga Parbat per portare a termine un’impresa emblematica di tutta la sua eccezionale carriera. Un’impresa che segna un punto di svolta.
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Simone Moro – Nanga Parbat mon amour
Il testo che segue è stato scritto dall’autore
A cinquant’anni quasi compiuti, con l’etichetta di alpinista del freddo addosso, mi rimaneva come opzione potenziale quella di appendere la piccozza al chiodo, vivere dei tanti bei ricordi e successi lasciati dalle quasi sessanta spedizioni compiute, fare alpinismo solo per divertirmi e mettermi in poltrona come spettatore, lasciando alle nuove generazioni il ruolo di protagonista o coprotagonista.
E invece no, l’età biologica non aveva ancora fatto evaporare l’entusiasmo e la fiamma dentro di me.
Ero cresciuto, avevo imparato tante cose, avevo cambiato i compagni di cordata, i modi, il linguaggio, e il trascorrere del tempo fino a quel momento mi aveva portato più vantaggi che altro, di sicuro e per fortuna, nessun acciacco.
Perciò l’inverno successivo il Nanga Parbat, la mia mente cominciò a macinare, come continua a fare sempre, in cerca di nuovi terreni e nuovi sogni da realizzare.
Volevo fortemente rimettermi in gioco, evitando decisioni strategiche o di convenienza, non volevo abbassare l’asticella, anzi desideravo provare ad alzarla ancora di più, senza però essere scontato. Tutti infatti si domandavano quale sarebbe stato il prossimo 8000 d’inverno che Simone avrebbe tentato o un’altra prevedibile impresa invernale himalayana… ma la scelta del nuovo progetto invernale, della nuova squadra e della nuova storia da vivere avvenne quasi per gioco, a metà tra il casuale e il razionale.
Simone Moro – Come nasce Siberia -71°
Come mi era già accaduto in passato, la scintilla che fece scattare l’idea arrivò casualmente, leggendo online un articolo del «Corriere della Sera». era autunno e già cominciavano a uscire pezzi che parlavano dell’imminente arrivo dell’inverno, delle nuove mode e tendenze della stagione. L’articolo che lessi raccontava invece del luogo abitato più freddo del pianeta, mettendo a confronto due contendenti: il villaggio di Ojmjakon e la cittadina di Jakutsk, entrambi situati nella Siberia orientale.
Ero seduto comodo sulla mia sedia di fronte al computer, e il freddo di cui parlava la notizia catalizzò immediatamente la mia attenzione. «mamma mia, che figata di posto!» esclamai ad alta voce. Avevo trovato l’articolo sul profilo di un utente di Facebook e senza pensarci troppo lo commentai con le due paroline che avevo appena pronunciato: «Che figata».
Passarono pochi minuti e sul mio smartphone ricevetti la notifica che qualcuno aveva risposto al mio commento.
Leggendo le sue parole, ebbi la sensazione precisa che fosse di una persona predestinata a capitare nella mia vita in quel preciso momento. in seguito ne ebbi la conferma.
«Sono bergamasco, vivo a Mosca e ho un figlio di nome Filippo che è già stato in quei posti come giornalista dell’agenzia di stampa russa TASS, documentando i viaggi avventurosi dei camionisti che per giorni e settimane guidano in quelle terre remote, isolate, congelate, aprendosi letteralmente il varco in improbabili strade o addirittura percorrendo i fiumi ghiacciati, chiamati zimnik, per approvvigionare queste terre, queste popolazioni e queste città.» Questo il commento, come lo ricordo, di tale Roberto Valoti Alebardi.
Da un semplice articolo di giornale che aveva stimolato la mia curiosità era arrivato un primo segnale, come del destino, che mi stava indicando nuovamente la via. Si aggiunse poi un’altra coincidenza: in quello stesso periodo, un ciclo viaggiatore italiano, Dino Lanzaretti, aveva appena ultimato un viaggio invernale con la bici, iniziato proprio nella Siberia nordorientale.