La domanda sulla famiglia è provocatoria, lo sappiamo. E di certo non c’è una risposta univoca.
La verità è che la famiglia, o meglio, l’idea che abbiamo di essa è qualcosa di multiforme ed estremamente complesso da incasellare.
Grazie a un viaggio attraverso i libri cercheremo di capire cosa, della famiglia, fa male.
Famiglia, maternità e universo donna. I grandi assenti sono sempre gli uomini
Gli amanti della lettura lo sanno bene. Definire un libro è spesso compito assai arduo. Un romanzo può essere bello, divertente, scritto bene o scritto male, avvincente, noioso, ripetitivo, originale, banale, accattivante, inquietante, rilassante e via così quasi all’infinito… Per non parlare del genere, ambito questo in cui eserciti d’intenditori puntualmente discutono, difendono contestano l’opportunità di etichettare un libro, come succede per esempio per quella folta schiera di romanzi, oggi molto apprezzati e venduti, che stanno su quel continuum sfumato di giallo, thriller e noir.
E poi, oltre a tutti i possibili aggettivi ed etichette, ci sono i libri “importanti”, quelli cioè che senza tema d’essere smentiti, al di là che piacciano o meno, scatenano dibattiti, inducono riflessioni, agitano le pagine dei giornali, toccano le corde di una buona fetta di lettori.
Così è, se vi pare, La spinta di Ashley Audrain, vero e proprio caso editoriale – è il caso di dirlo – dell’anno. Annunciato da un successo internazionale micidiale, in corso di traduzione in ben 34 paesi, qui da noi in Italia è pubblicato da Rizzoli ed è in libreria da qualche settimana. Diventerà anche una serie televisiva, firmata dai produttori di C’era una volta a… Hollywood, film scritto e diretto da Quentin Tarantino.
Ashley Audrain è al suo debutto. Dopo aver lavorato a lungo come capo ufficio stampa della casa editrice Penguin Books Canada, si è messa a scrivere il libro sei mesi dopo la nascita del primo figlio, come spiega nella sua prima intervista italiana all’Huffington Post. E con la maternità ha molto a che fare La spinta, titolo azzeccatissimo tradotto letteralmente dall’originale The Push, dietro a cui si cela lo snodo più dirompente e feroce del racconto.
La voce narrante è quella della protagonista, Blythe, donna e madre che scrive questa lunga lettera indirizzata all’ex marito, nella quale ripercorre a ritroso le vicende tragiche e incredibili che l’hanno allontanata dal marito e dalla figlia primogenita Violet.
«Una volta t’importava di me come persona: della mia felicità, delle cose che mi facevano stare bene. Adesso ero una fornitrice di servizi. Non mi vedevi più come una donna. Ero solo la madre di tua figlia.»
«Maternità e scrittura», scrive Ashley Audrain, «hanno segnato per me un identico nuovo inizio, ed entrambi sono una gioia e un privilegio».
Maternità e scrittura, il desiderio di essere una madre perfetta e l’aspirazione a una carriera professionale che attraverso la pagina scritta realizzi se stessa saranno invece per Blythe i detonatori di una bomba che deflagrerà alla nascita di Violet, una discesa negli abissi che non può lasciare indifferenti né le lettrici né tantomeno i lettori.
Attraverso la voce onesta, viscerale e brutale di Blythe, Ashley Audrain ci guida dentro una storia in cui il rapporto tra una madre e una figlia, e con esso la famiglia intera, precipita in una voragine di emozioni inevitabili, selvagge, incontrollabili.
Ecco perché La spinta è un libro “importante”: scava nell’animo di una madre (o di tutte le madri?), dice quel che di solito non si dice, confessa l’inconfessabile dando forza all’etichetta del mum noir, nuovo filone del thriller psicologico che vede protagonista la maternità.
Non si tratta sempre o soltanto di raccontare cattive madri, spesso vittime dell’ambiente domestico o dei figli. Un libro “mum noir” ci mette i brividi e ci toglie il fiato, presentando il lato oscuro che appartiene a ogni maternità.
Al riguardo del romanzo della Audrain, Silvia Avallone ha scritto un articolato e appassionato articolo su La Lettura:
«Un fine thriller psicologico, un meccanismo furioso e avvincente, ma soprattutto, a mio avviso, uno spudorato documento sulla solitudine delle donne che diventano madri, sulla violenza con cui si tenta di imprigionarle dentro uno stereotipo ingiusto, e impossibile. Audrain mette a fuoco lo scarto vertiginoso tra narrazione di massa, e di comodo, e realtà; uno scarto su cui ancora oggi si tace pesantemente, ma che ogni madre – e quindi ogni figlio – in misura più o meno lieve, con strascichi più o meno dolorosi, ha sperimentato.»
Scrive Blythe:
«Come le mie giornate con Violet, anche le conversazioni tra mamme erano decisamente banali. Se i bambini dormivano, quando e dove, se mangiavano e quanto, programmi di svezzamento, asilo nido o tata, che accessori una o l’altra aveva comprato e ci consigliava perché non poteva più vivere senza. A un certo punto per uno dei bambini veniva l’ora del riposino, che si poteva fare solo a casa, in culla, in modo da non alterare la routine conquistata a caro prezzo. Perciò raccattavamo baracca e burattini e andavamo via. Qualche volta, mentre pagavamo il conto, io trovavo il coraggio di dire che cosa provavo veramente. La buttavo là così, tipo esca: “Però, certi giorni è dura, eh? Essere mamme, intendo”.
“Be’, a volte sì. Ma è la cosa più gratificante che si possa fare, no? E ne vale troppo la pena quando vedi questa faccetta, al mattino.” Io le guardavo bene, queste donne, cercavo di smascherarne le bugie. Ma niente, mai una crepa, mai un passo falso.
“Assolutamente.” Davo sempre l’impressione di concordare. Poi però guardavo la faccetta di Violet nel passeggino per tutto il tragitto, chiedendomi perché non mi sembrava la cosa più bella che avessi mai fatto.»
Scrive ancora Silvia Avallone:
La madre con il bambino – un quadro che ricorre non a caso ne La spinta – è un’immagine di così straziante bellezza, uno stereotipo di così abbagliante semplicità, da soverchiarci. Però nessuna donna è un angelo. Nessun bambino lo è.
Cosa sono le plus madri all’interno della famiglia?
«La spinta scava in profondità nell’anima buia di una “plus madre”, dando voce alla ribellione del femminile che non può essere ridotto né disciplinato», osserva Silvia Avallone, che cita l’analisi della psicoanalista Laura Pigozzi, autrice del neologismo “plusmaterno”, concetto al centro del saggio Troppa famiglia fa male. Come la dipendenza materna crea adulti bambini (e pessimi cittadini), di cui vi abbiamo parlato in questo articolo e che offre molte chiavi di lettura sulla relazione tra madri e figli e sulla questione femminile.
Famiglia è anche saper stare con se stessi
Temi, questi, che irrompono in un altro romanzo, Appunti per me stessa, dove a mettersi a nudo è la stessa autrice, Emilie Pine, docente di drammaturgia allo University College di Dublino, che con questo suo primo libro si è aggiudicata l’Irish Book Award e il primo posto nelle classifiche dei bestseller in Irlanda.
Anche questo è un libro schietto e tagliente, segno forse che è arrivato il momento di smascherare romanticismi, ipocrisie e falsità che abbondano nella narrazione tradizionale della maternità, della famiglia e del rapporto genitori-figli.
Appunti per me stessa è un memoir cadenzato in sei capitoli-confessioni in cui l’autrice affronta a viso aperto le ferite della sua vita, dalle difficoltà relazionali con un padre alcolizzato all’esperienza cruda dell’infertilità, dalla fame imposta al proprio corpo di adolescente fino al corpo violato dalla prepotenza degli uomini.
«Sono piena di paura, speranza e vergogna. Temo di essere vuota o piena delle cose sbagliate. Temo di scomparire, di erodermi, di fallire. Non so che farmene di tutti questi sentimenti. Voglio soltanto diventare madre. Ma perché per certe persone è così facile e così difficile per altre? Perché per me è così difficile?»
Pine non risparmia nessun dettaglio intimo, imbarazzante, corporale alla cronaca dei suoi tentativi di rimanere incinta, mentre il travagliato rapporto col padre odiato e adorato che corre lungo tutto il libro ci costringe a riflettere su quanto sappiamo davvero di noi stessi e delle persone che pensiamo di amare.
Al netto di tutte le suggestioni del detto e del non detto, restano la scrittura e ciò che hanno da dire i libri “importanti”, a unire, tracciando una via, la finzione letteraria del personaggio di Blythe creato da Ashley Audrain con La spinta, alla cruda verità del memoir di Emilie Pine, che in Appunti per me stessa ci lascia scritte queste parole:
«Papà mi aveva fatto promettere che da grande non sarei diventata una scrittrice. Io gliel’avevo solennemente giurato, ma dentro di me sapevo che sarebbe successo l’esatto contrario. Perché in realtà mio padre mi ha insegnato, forse suo malgrado, che scrivere è un modo di dare un senso al mondo, un modo di elaborare (di possedere) pensieri ed emozioni, un modo di trasformare il dolore in qualcosa di prezioso».