È un caso unico nel mondo. Nessuno prima di Lucio Dalla aveva avuto la sfacciataggine di imprimere la propria data di nascita nell’immaginario collettivo. Per di più inducendo milioni di persone a credere che la storia raccontata dalla canzone fosse la propria autobiografia. Niente di più falso.
L’unica cosa reale è quel 4/3/1943. A voler essere pignoli si potrebbe aggiungere un giovedì: quel giorno veniva al mondo Lucio, figlio di Giuseppe Dalla e Iole Melotti, entrambi già piuttosto in là con gli anni: quarantasette lui, quarantadue lei. Insomma, niente a che vedere con la sedicenne concupita da un uomo che «veniva dal mare / parlava un’altra lingua però sapeva amare».
Il signor Giuseppe era una persona distinta, pare molto ambito dalle altre donne. Commerciava olio e a tempo perso dirigeva il locale club di tiro a volo: fin dalla più tenera età portò il piccolo Lucio ad assistere a sessioni – che a lui parevano interminabili – in cui appassionati di questa disciplina trascorrevano lunghe ore a colpire piattelli o altri bersagli mobili (ecco perché molti anni dopo Lucio Dalla canterà: «Babbo, che eri un gran cacciatore / Di quaglie e di fagiani»). La signora Iole invece faceva la modista e gestiva un laboratorio di sartoria nell’appartamento di piazza Cavour in cui Lucio era venuto al mondo.
Lucio Dalla e le origini avvolte tra mito e leggenda
Iole e Giuseppe si sposarono soltanto un mese prima del lieto evento, come a voler porre riparo a una situazione che in quegli anni non era certo ben vista. Questo, unito agli spunti offerti dalla finta biografia della canzone, con gli anni genererà equivoci e leggende, che faranno dubitare della paternità ufficiale. Secondo alcune voci, infatti, le origini di Lucio sarebbero da ricercare in Puglia, dove la madre andò spesso a partire dal 1933, quando la sua famiglia si trasferì a Manfredonia.
La più incredibile di queste voleva addirittura Lucio figlio di Padre Pio, del quale mamma Iole era una fedelissima devota. Ovviamente un’ipotesi che non è mai stata presa sul serio da nessuno.
Un’altra attribuiva la paternità a uno degli uomini più potenti del Gargano, Francesco Morcaldi, a più riprese podestà e sindaco di San Giovanni Rotondo. Qualunque sia la verità, anche dopo la sua nascita, per tre mesi all’anno, d’estate, la base della sartoria diventava Manfredonia. In Puglia Iole e la sua socia Lina Fantuzzi avevano clienti molto agiate, che chiamavano “le signore degli uliveti”. A Foggia, capitarono anche a casa Arbore. Molti anni dopo il grande Renzo ricorderà:
«Un giorno ci incontrammo e Lucio mi domandò: “Ma tu sei il figlio della signora Arbore?”. Risposi di sì, ricordandogli che ci eravamo conosciuti a casa mia quando lui era piccolissimo e io, che ho qualche anno in più, gli avevo fatto da baby-sitter».
Tutti sono concordi nel dire che quel bambino aveva l’argento vivo addosso ed era uno spasso trovarselo davanti.
Il saluto di Silvana Casato Mondella a Lucio Dalla
Da quando Lucio Dalla non c’è più ho iniziato a misurare il tempo secondo un personale spartiacque a cui ricorro ogni santo giorno, una specie di a.L. e d.L., senza essere naturalmente irrispettosa verso la cronologia di nostro Signore.
Stessa cosa mi capita da quando anche mio marito, Michele Mondella, ci ha lasciato, ultimo atto di una morte che ha cominciato a correre verso di lui lo stesso giorno in cui si è spento Lucio: Michele gli è sopravvissuto giusto il tempo necessario per mettere a punto tutta la “comunicazione” che doveva consacrare il suo genio, la sua arte e l’immenso patrimonio delle sue canzoni – oltre le commemorazioni di rito, oltre la retorica, direttamente e saldamente – a esempio culturale diffuso e trasversale, condiviso e popolare. Questa la missione di Michele, da sempre, dal 1973 fino all’ultimo giorno.
Il piccolo grande Lucio, per tutti e di tutti: per me e per Michele ancora di più, orgogliosamente, con la gioia di una quotidianità che il passare degli anni non appanna, ma anzi esalta attraverso i pensieri e i ricordi più bizzarri.
Ad esempio, faccio la spesa al mercato e vedo i cachi mela. Dieci anni fa da noi non c’erano e allora mi viene spontaneo chiedermi se a Lucio sarebbero piaciuti; a lui che sulla sua alimentazione faceva regnare il mistero: davvero era intollerante alla pasta e ai carboidrati? Davvero avrebbe mangiato qualcosa di diverso dalle verdure e dagli hamburger che tenevo sempre nel frigo per lui, dal momento che poteva capitare a casa senza preavviso da un momento all’altro, e mettersi a tavola puntuale alle sette e mezzo chi c’era c’era? Esistono smentite in tal senso. Persone che raccontano di un’epica carbonara a New York durante le registrazioni di «DallAmeriCaruso» nel 1986, nel ristorante di un amico italiano ex produttore discografico trasferitosi al Village.
Bugiarde queste persone o bugiardo lui? Io non ho molti dubbi, risponderei come il Corrado Guzzanti di Quelo: la seconda che hai detto.
Dicevo che nelle mie giornate c’è anche un altro prima e un altro poi, a.M. e d.M., ovvero prima della scomparsa di Michele e dopo, ma anche questo si lega a Lucio, perché la loro affinità mentale era assoluta, i loro pensieri correvano nella stessa direzione. Così continuo a immaginare cosa direbbero, cosa farebbero, quale posizione prenderebbero di fronte, per esempio, a un evento planetario come la pandemia che nessuno di loro due ha vissuto. Da buoni ipocondriaci, entrambi avrebbero cambiato di sicuro le proprie abitudini e preso tutte le precauzioni possibili, ma se per Michele sarebbe stata una sofferenza, Lucio probabilmente si sarebbe esaltato nello scoprire tutte le applicazioni che oggi rendono possibile lavorare da remoto, con riunioni a distanza audio-video.
Già, perché Lucio era un fan della tecnologia. Ricordo il suo entusiasmo nel 1990, anno dell’avvento dei telefoni cellulari in Italia, che lui considerava un grande passo per l’umanità, una conquista della civiltà contemporanea, uno strumento che aumentava la qualità della nostra vita. Pensava, mi spiegò, a quei genitori in ansia per i figli che tardavano la sera nel rincasare, e la cosa mi colpì, perché una attenzione, un pensiero del genere da lui, che era quanto di più lontano da una figura paterna si potesse immaginare, non me lo aspettavo davvero.
Ma poi anche su questo dovetti ricredermi, perché quando nacque mio figlio Dario, lui si trasformò in una specie di nonno, naturalmente molto sui generis. Gli regalò la Playstation a tre anni, e poi non si smentì quando al suo dodicesimo compleanno si presentò con una confezione di dodici preservativi tutti colorati. Del resto, di cosa stupirsi dopo che un giorno mi aveva detto che mi avrebbe sposato solo se fossi stata di Brescia? Di Brescia poi, chissà perché.
Lucio era un entusiasta e si prendeva delle cotte artistiche che lo facevano diventare un fan adorante, uno qualsiasi, uno che quasi si dimenticava chi fosse. Se apprezzava qualcuno era perché ne capiva la genialità, la bravura, l’unicità, ma il suo era un trasporto naturale, non usava gli strumenti della sua conoscenza, della sua professione, per dirigere la sua attenzione, ci arrivava di istinto. Ricordo Prince.
Impazziva letteralmente per lui, diceva che stava rifondando il soul e che dovevamo ascoltarlo tutti perché Prince stava operando una vera e propria rivoluzione su più fronti, rock, pop, jazz. Prince per Lucio era l’artista più “avanti” degli anni Ottanta, ne rappresentava la vera grande novità. La morte di questo artista è un altro evento da collocare in d.L. e che gli avrebbe causato molta tristezza… forse ci avrebbe scritto una canzone, come aveva fatto nel 1996 per Ayrton Senna, un altro suo idolo. La cosa bella è che questo stesso entusiasmo lo manifestava anche quando un talento sconosciuto entrava nella sua orbita.
Non esisteva un ordine di grandezza che potesse influenzarlo, non era certo la macchina mediatica a impressionarlo, ed era questo il segreto del suo successo anche come talent scout. Di Ron intuì le qualità di grande tessitore e “music maker”, soprattutto in «Banana Republic»; di Luca Carboni la capacità di indovinare slogan generazionali; di Samuele Bersani la forza della struttura compositiva, tanto da portarselo in tournée solo poche settimane dopo che questo ragazzo gli aveva presentato un pezzo semplicemente formidabile intitolato Il mostro.
Lucio diceva sempre che
«la miglior forma di intelligenza è adattarsi ai tempi».
E da questo capivi che non si voltava mai indietro, che la nostalgia non gli apparteneva. «Adattarsi ai tempi» per lui voleva dire soffermarsi sul presente, perché considerava un dovere capire cosa stesse accadendo intorno a lui, ma poi, subito dopo, la linea partiva dritta in avanti, verso il futuro. E non c’è bisogno di citare, appunto, Futura, L’anno che verrà, Anna e Marco, Cosa sarà, Il motore del 2000, Se io fossi un angelo, Henna, Ciao… per dimostrare dove correva la sua mente.
Ma ora che ci penso, non so quanto un futuro dominato dai social, dagli odiatori seriali, dai cosiddetti “leoni da tastiera” gli sarebbe piaciuto. Così come un rigido e miope “politicamente corretto” applicato ossessivamente a tutto, lui così libero, così aperto, così innamorato dell’intelligenza sopra ogni cosa.
Michele e io abbiamo vissuto trentacinque anni della nostra vita professionale in funzione di Lucio. Professionale perché non abbiamo mai dimenticato che era un nostro artista e che in quanto tale dovevamo proteggerlo, tutelarlo, promuoverlo. Un lavoro, certo, ma che ho avuto la immensa fortuna di veder crescere nel perimetro di un rapporto che si allargava ogni anno di più, per assomigliare a ciò che oggi chiamerei senza dubbio una bella famiglia.
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Il produttore Renzo Cremonini – era lui che chiamava Lucio “Il ragno” e così faceva anche Michele –, Eugenio d’Andrea, il suo avvocato, mia madre, i tanti amici, la barca Catarro, le Tremiti, Sabaudia…
Tra noi non esisteva un giorno senza Lucio, senza che si parlasse del prossimo progetto: un nuovo disco, un tour, un duetto, un’opera, una trasmissione televisiva, un video, l’apertura di una galleria d’arte, un film.
Una energia che non si affievoliva mai, sempre alimentata da nuove onde d’urto.
Che ancora oggi non mi hanno abbandonato.