Stefania Andreoli smantella gli stereotipi sulla maternità
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Redazione BookToBook
13 Apr 2022
«Quando di recente ho risposto alla domanda di una follower che mi chiedeva chi fosse la persona più importante della mia vita (… Io!), Valentina, che mi segue anche lei, mi ha scritto: Doc, ma quanto è rivoluzionaria questa cosa che dice? Fa venire le vertigini, a una mamma come me e, anzi, forse al 99 per cento delle mamme che la leggono. Siamo cresciute con la convinzione che l’amore per i figli sia e debba essere totalizzante. Che quando nascono tu non importi più, devono importarti solo loro e il loro benessere. Pretendere qualcosa anche per te come persona, donna e professionista è visto come mero egoismo per cui essere malvista dai padri, dalle nonne, dalle altre madri.»
Sono tante le testimonianze come questa che Stefania Andreoli raccoglie ogni martedì sul suo profilo Instagram, nel corso della rubrica di domande e risposte nata cinque anni fa e che una sua ex paziente chiamò “Il martedì delle parole”. Tale è rimasta per la comunità di oltre 200mila di follower, per lo più donne, che le esprimono dubbi, paure, sensi di colpa, interrogativi sull’essere madri e genitori. Se però ti aspetti le solite frasi consolatorie e inneggianti la maternità, l’amore incondizionato, il sacrificio o ricette pronte all’uso per compiere sempre le scelte giuste, per non sbagliare mai coi propri figli, rivolgiti altrove. Stefania Andreoli non ti dirà mai cosa fare; al contrario, ti inviterà a pensare affinché sia tu a decidere in autonomia, a prendere consapevolezza di te stessa e dei tuoi bisogni, del tuo benessere e di ciò che ti fa star meglio, prima di tutto il resto. Così fa anche nel suo nuovo libro, appena arrivato in libreria con Bur: Lo faccio per me. Essere madri senza il mito del sacrificio.
Per chi non la conoscesse ancora, Stefania Andreoli è psicologa e psicoterapeuta – «un mestiere che non risponde, bensì interroga» – tra le più seguite e ascoltate in Italia. Consulente, tra gli altri, per Walt Disney, scrive per il “Corriere della Sera” e “la27esimaora” ed è ospite fissa in diversi programmi radio e tv, tra cui “Catteland” su Radio Deejay. Già collaboratrice del ministero dell’Interno per le politiche di contrasto alla violenza di genere, è giudice onorario del Tribunale per i minorenni di Milano e presidente dell’associazione Alice Onlus di Milano. Con Bur ha scritto altri tre libri di successo: Mamma ho l’ansia (2016), Papà, fatti sentire (2018) e Mio figlio è normale? (2020).
Lo faccio per me è il titolo-manifesto di un libro che aggiunge molti contenuti alla riflessione sulla consapevolezza che abbiamo di noi stessi prima di tutto in quanto persone e poi, eventualmente, in quanto genitori. Sono 250 pagine che hanno molto da dire, da sfatare, da controbattere rispetto agli stereotipi triti e ritriti – ma che purtroppo producono ancora danni – sulla maternità e l’istinto materno e, più in generale, sulla genitorialità. Cosicché, conviene subito sgombrare il campo dalle convenzioni sociali che ci portiamo appresso da decenni, per liberare la mente dai condizionamenti dell’educazione ricevuta, abbandonare i miti sull’amore filiale e ascoltare Stefania Andreoli quando dice chiaro e tondo, demolendo cliché, che «diventiamo madri, nessuna lo è per natura».
«In modo ampio e arioso, il mondo ormai non è più popolato solo da genitrici e generatrici, eppure certi stereotipi sono ancora resistenti a morire, se penso alla frequenza con cui mi viene chiesto se una donna si realizza davvero come tale solo quando diventa madre, nell’Anno Domini 2022. Non dovrebbe esserci bisogno di rassicurare che no, una donna è anzitutto un essere umano e che, se e quando diventa madre, ha già all’attivo decenni di vita, esperienze, passioni, dolori, amori, viaggi, studi, interessi, cadute, racconti.»
Eppure, succede che nel 2020 in Italia 42.000 neogenitori hanno lasciato il lavoro: «Quasi l’80 percento di loro era donna», cita Stefania Andreoli. «La presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen nel suo discorso di apertura al G20 delle donne del 2021 ha fatto riferimento a come troppe donne vengano ancora cresciute nell’alveo ideologico di dover compiere una scelta tra essere madri e fare carriera, come se si trattasse di dover necessariamente scegliere – dunque perdere.»
Al cuore del nuovo libro di Stefania Andreoli c’è dunque quel messaggio dirompente condensato nel titolo, la legittimazione e la rivendicazione del poter dire “lo faccio per me” senza farsi condizionare dalla pressione sociale esercitata da secoli sulle donne, senza doversi sentirsi in colpa perché da una madre ci si aspetta che rinunci a se stessa per dare priorità ai bisogni, alle esigenze, ai capricci della prole. Ebbene, Stefania Andreoli rompe un tabù (e parecchi altri nel corso del libro) quando spiega: «L’egoismo in psicologia va inteso come un tratto sano, da valorizzare come corsia preferenziale per vivere in autentica pienezza». “Lo faccio per me” pronunciato e rivendicato da una madre (o da un padre) può e, anzi, dovrebbe venir finalmente sdoganato quale forma di consapevolezza, maturità, intelligenza a beneficio della relazione genitori-figli. «Farci garanti dei nostri bisogni e non imbavagliare le nostre esigenze ci rende persone vere e libere», avverte la psicologa. «Per come la intendo io: persone sane. Cessando di compiacere chi ci sta intorno, cesseremo di esserne dipendenti. Otterremo così, tra gli altri, risultati profondamente trasformativi: saremo finalmente responsabili della nostra felicità e delle nostre azioni per raggiungerla; eviteremo di consegnarla agli sforzi degli altri e di investirli di una responsabilità che non compete loro e che rischia di farci restare oltremodo delusi; accresceremo la nostra autostima entrando in contatto con il nostro vero io, attingendo alle nostre risorse interiori come ingredienti del nostro talento e della realizzazione delle nostre potenzialità». La psicoterapeuta ferma così su carta un pensiero prezioso e decisivo, ripulito da ogni ipocrisia ammantata da indefesso amore genitoriale: «Siamo prima persone, poi genitori».
In uno dei suoi post su Instagram da migliaia di like, poche settimane fa Stefania Andreoli – sposata e con due figlie – si è rivolta alla sua comunità di follower con alcune delle tante domande che pone anche nel libro:
«La genitorialità è un bel film, ma ha i suoi momenti. Si innesta su una vita dove c’è tanto altro oltre a quello, e spesso ci richiede risorse che, semplicemente, in quel momento non abbiamo a disposizione.
E così rispondiamo male, scivoliamo, poi ci sentiamo in colpa, e finisce pure peggio. Che si fa? Si prova a partire dall’inizio: sono convinta che un buon genitore, è un genitore felice. Che su tutto, bada alla cura del suo benessere come requisito fondamentale per filare via più lisci anche con i figli. E tu, sei felice? Ti sembra che la risposta a questa domanda, c’entri con il comportamento che hai con i tuoi figli? Inizio io: sì, sono felice. E da felice sono indubitabilmente una madre più allegra, ricca di offerte e bendisposta.»
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La psicoterapeuta ci invita a smontare la retorica del sacrificio della madre, che è una vera e propria tematica sociale e che, pur non essendo soltanto italiana, nel nostro Paese «attecchisce meglio che altrove, in parte per una certa influenza di matrice cattolica e di ideale della madre irraggiungibile, se paragonato all’esempio della Santissima Vergine. Ci raccontiamo, implicitamente, che il sacrificio è in generale sempre un atto di valore, e nel caso della donna questa enfasi è ancora più forte. Dal “parto con dolore” alla “mamma coraggio”, la cultura italiana è piena di esempi, e a ogni livello socioculturale questa idea gioca ancora un ruolo da protagonista». È l’archetipo tanto radicato che arriva a condizionare persino le generazioni più giovani, come nota l’autrice di Lo faccio per me: «Sembra davvero incredibile che la convinzione che diventare madre significasse la morte cruenta della persona nel resto della sua interezza sia resistita tanto a lungo da interrogarci e da dover essere rivisitata ancora oggi. Penso che sia per questo che – almeno così mi pare – stiamo assistendo alla comparsa di un numero sempre più significativo di donne che non si chiedono più tanto come fare bene la mamma, ma se diventarlo».
Al di là di ogni retorica, dunque, smantellare certi miti servirebbe innanzi tutto a liberarci dall’idea che funzioni un unico modo di essere madre e genitore, un unico e preciso codice di comportamento per allevare i propri figli, dando invece voce alla pluralità di modi di esistere e di vivere di cui ognuno di noi è portatore. Una rivoluzione culturale da compiere a beneficio della collettività anche perché, come suggerisce Andreoli, «resiste, nelle pieghe profonde del nostro immaginario, l’idea (gemella siamese della madre sacrificata) che il femminile si esprima al suo massimo grado quando genera, e che l’eros (inteso alla maniera greca di amore), la seduzione, la bellezza, l’innamoramento non solo non trovino più adeguato spazio e si facciano accessori, ma in qualche modo, se intesi come punteggiatura di una relazione tra pari, siano quasi sconvenienti quando hai un bambino».
Le molteplici testimonianze riportate dalla psicoterapeuta nel volume sono tratte dalla sua esperienza clinica diretta con i pazienti – madri, padri, figlie e figli – così come dalla cronaca e dall’osservazione della nostra contemporaneità social: «Potreste pensare che a commentare sotto i post di Chiara Ferragni, quando si mostra in lingerie o con un micro top, che dovrebbe vergognarsi, coprirsi o evitare ora che è mamma (!!!) sia solo qualche pessimo esempio di boomer che ha in dotazione smartphone e connessione», scrive l’autrice. «In questo caso, sappiate che nella mia esperienza di lavoro con gli adolescenti non è raro condurre riflessioni con i gruppi classe sulla prevenzione della stereotipia e della violenza di genere e scoprire che esistono anche i quindicenni (sia maschi che femmine) determinati a credere che una donna che ha figli debba corrispondere a un preciso codice di comportamento».
Invece essere madri, oggi, non deve più essere considerato un mestiere misurabile e giudicabile in base alle performance; non è un ruolo che deve ambire alla perfezione, non è la rinuncia a essere donna per immolarsi al materno, non è stare a casa e rinunciare al lavoro: è essere una mamma-persona. Una maternità sana, consapevole, felice e utile per la società sarà quella esercitata da donne «che rifuggono la tossicità delle relazioni, che si mettono al centro, che non hanno conseguito due master per poi sentirsi dire dall’insegnante del figlio che la Dad va seguita dalle mamme. Che a scuola dei loro ragazzi si fanno sentire non per chiedere di rimandare l’interrogazione, ma per dire che non gradiscono che alle figlie si dica che se Pierino fa loro i dispetti è perché in verità è innamorato. Che se hanno fatto i figli con un uomo, trovano perfettamente naturale che la partecipazione sia di entrambi e che non si sentano costrette a chiedere alla propria madre di venire a stare a casa durante il puerperio, perché sarà il padre del bambino ad accudire il pargolo insieme a loro». Riuscire a pensare in questi termini, ci dice infine Stefania Andreoli, «sarà umano, sarà femminile, sarà profondamente materno: racconterà alle figlie e ai figli la normalità delle madri che hanno una professione. Da affiancare alla liceità di chi non ce l’ha, se non la vuole o se preferisce altro. Da criticizzare tutte le volte che sarà complesso o impedito averne una. Da contemplare insieme alla possibilità che in famiglia lavori la mamma e non il papà, senza che diventi il plot di una commedia cinematografica che, dai, in fondo è solo un film».