“Horcynus orca”: l’Odissea siciliana di Stefano D’Arrigo
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Redazione BookToBook
27 Feb 2025

In occasione del cinquantesimo anniversario della prima pubblicazione di Horcynus orca, opera mondo di Stefano D’Arrigo, Bur riporta in libreria tutte le opere dell’autore siciliano, con una nuova veste grafica.
La nuova edizione di Horcynus orca, in uscita il 25 febbraio, è arricchita da fotografie e documenti inediti, uno scritto di Giorgio Vasta, la storica introduzione di Walter Pedullà e la postfazione di Siriana Sgavicchia.
Qualche nota su Horcynus orca
Horcynus orca fu pubblicato per la prima volta nel 1975 dalla casa editrice Mondadori, dopo più di vent’anni di lavoro, scrittura e riscrittura, e un’attenta revisione linguistica. Non è, infatti, facile comprendere tutti i giochi di parole all’interno del romanzo, allusioni al dialetto che – forse – soltanto le vecchie generazioni (siciliane o tutt’al più meridionali) potrebbero capire.
Giuseppe Pontiggia, che revisionò il romanzo, sostiene che “leggere Horcynus orca vuol dire anche imbarcarsi per un viaggio molto impegnativo”, ed è proprio così. Leggendo le oltre mille pagine, il lettore vive una vera e propria Odissea siciliana, ambientata nel 1943, insieme a ’Ndrja Cambria, un Ulisse moderno, un personaggio a cui D’Arrigo è molto legato tanto quanto alla sua opera.
«Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’e cariddi.»
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, ’Ndrja Cambrìa, marinaio della fu Regia Marina, decide di tornare a casa, insieme ad altri compagni con cui approda a Praia a Mare, in Calabria. È l’inizio del viaggio omerico, del ritorno in patria e proprio come Ulisse e i suoi Proci, anche ’Ndrja e i suoi compagni di viaggio dovranno affrontare delle prove e fare i conti con la miseria e la devastazione che la Seconda guerra mondiale ha portato.
D’Arrigo ambienta il romanzo nella sua Sicilia perché il nostos di ’Ndrja è il nostos mentale dell’autore che, trasferitosi oramai a Roma, attraverso la scrittura ritorna in terra natia, o meglio, in acque natie, quelle del Tirreno e dello Jonio, il mare di sangue pestato, il mare aranciato.
Horcynus orca è permeato da continui riferimenti all’Odissea omerica con la differenza che qui si tratta di un’Odissea contemporanea in cui nessun dio viene in aiuto di ’Ndrja, è un’opera in cui ’Ndrja non può essere re e capo dei suoi compagni come invece fa Ulisse: il ritorno in patria di ’Ndrja significa morte (perché, spoiler, muore), non salvezza, ma lui sceglie lo stesso di tornare. D’Arrigo si ispira a Omero, ma allo stesso tempo, lo dissacra, annullando i valori del poema epico, dando ai suoi personaggi una concezione umana.
Il viaggio di ’Ndrja è un ritorno in patria, una patria in cui è costretto a vivere nei ricordi perché è tornato vivo dalla guerra e deve scontare questa “pena” rivivendo il passato, basti pensare che la narrazione copre un arco temporale di soli cinque giorni, dal 4 all’8 ottobre 1943, ma al suo interno ci sono numerose digressioni sotto forma di flashback.
’Ndrja è Ulisse, ma è un Ulisse differente. È un Ulisse che non torna per raccontare le sue avventure, che non starà a fianco della sua Marosa, la donna promessa in sposa a ’Ndrja che – proprio come Penelope – lo attende fedelmente, che non vedrà mai nascere un figlio. Walter Pedullà definisce ’Ndrja “un personaggio con un destino differente da Ulisse perché Ulisse è bugiardo, ’Ndrja no”. Segnato dalla guerra e dal dolore, il nostro protagonista non può tornare a casa e diventare una guida come Ulisse.
Basti pensare all’inizio del romanzo: i compagni di ’Ndrja lo chiamano Mosè sperando che lui, come Mosè salvò gli Ebrei, possa salvare anche loro e farli ritornare in Sicilia.
Ma se ’Ndrja ha perso i suoi valori a causa della guerra, come può fare il capo? Come può salvare i compagni, se lui stesso non riesce a trovare la salvezza? Ulisse mente a Polifemo per salvare i compagni, nell’opera di D’Arrigo ’Ndrja non mente a nessuno, non scende a compromessi, abbandona i suoi compagni di viaggio in balia delle femminote. Come scritto sopra, ’Ndrja – a causa della guerra – ha perso se stesso e i suoi valori ed è anche un uomo senza religione. Per questo non può essere Mosè, perché si ritrova senza un dio nella sua condizione e cognizione di uomo:
“Ma che segno volete, cristianello straziante, figura sfigurata del genere umano? Segno di croce, questo volete? O avete in mente il segno di Mosè che gli apre il mare a Boccadopa, sennò quello vi s’impone in collo per trasbordarlo sino in Sicilia? Avete in mente questo: che sono Mosè vero, in persona? Scherzando e ridendo, arrivaste a figurarvi questo? E del resto, con una mente strambata come la vostra, vi potete figurare non solo Mosè, ma pure il dio che non è dio. Magari fossi Mosè, magari… Fossi Mosè, vedete, io qui mi troverei avvantaggiato, col mare mezzo spartito. Mi basterebbe che mi mettessi a Scilla, visavì a Cariddi, che è dove abito io, là di fronte, sulla linea del duemari, e là, con Tirreno da una parte e Jonio dall’altra, sempre a faccia avanti, coi cavalloni alzati ai due lati, mi farei la linea all’asciutto e dove esco, esco sempre a casa. […] E invece devo, lo volete capire? Io, anche se non vi scomparisco, non vi posso dare né consiglio di parola, né aiuto di fatto. Fate, fate il caso che queste tali contrabbandere femminote hanno veramente barca e s’imbarcano, potrebbe pure succedere allora che nella mente eccentrica gli salta il ticchio di favorirmi: questo ticchio però, potrebbe saltargli solo nel caso che mi vedono uno, unitto.”
Le fere, le femminote e l’orcaferone
Giunti a Praia a Mare, ’Ndrja e i suoi compagni vogliono trovare il modo per oltrepassare lo Stretto. Lì incontrano le femminote, una chiara allusione alle sirene omeriche. Le femminote spiegano ai marinai che è impossibile trovare un passaggio per la Sicilia perché gli angloamericani hanno affondato tutte le imbarcazioni, tutti i ferribò (ferry boat) in servizio da e per la costa calabra; le donne si lamentano e raccontano di quando viaggiavano sui traghetti e consumavano amplessi con i macchinisti dei ferribò, dicendo addirittura di pensare di essere state possedute dalla nave stessa. Le femminote sono simili alle Baccanti, sono donne lussuriose, e non è un caso che vengano ricondotte alle fere.
’Ndrja e i compagni arrivano nel paese delle Femmine e scoprono che in ogni casa si cucina la pestilenziale fera, il delfino che i mariti pescano nello Stretto. C’è un intero ossario di carcasse spolpate sulla spiaggia, un cimitero di fere. Le fere e le femminote sono legate perché leggenda vuole che entrambe discendano dalla stessa creatura ovvero la sirena.
È uno spiaggiatore a dirlo a ’Ndrja che – incaricato dai compagni a cercare di trovare il modo di attraversare lo stretto di Messina – cammina lungo la costa, sperando di imbattersi in qualcuno che possa trasportarli in Sicilia.
“Femminote e fere, nei caratteri, in tutto, si trattavano, le une con le altre, come si meritavano, e forse c’era del vero in quello che sosteneva don Mimì Nastasi, che cioè erano intrinseche e avevano lo stesso sangue, perché discendevano tutte e due, per gradi dalle sirene. Era meraviglia se si trattavano a manica larga: mangia che ti mangio, carne delle mie carni?”.
Lo spiaggiatore suggerisce a ’Ndrja di ingraziarsi le femminote per oltrepassare lo stretto: “Vi dovete scrivere a mente questo: che sono deisse, e se non le trattate per tali e non gli entrate nella divozione, voi, in Sicilia, per grazia loro, non ci arriverete mai. Pigliatele per il verso loro invece, per quanto dispotico sia, divozionatele nello stile che stilano e in Sicilia allora vi porteranno a musica, ciancianiando”.
In quel momento, ’Ndrja sceglie di seguire il consiglio del vecchio incontrato in spiaggia e la fortuna lo assiste dato che si imbatte in una femminota che lo invita a aiutarla a varare un’imbarcazione nascosta in casa, in cambio di un passaggio per lo Stretto.
Anche questa femminota è un chiaro rimando all’Odissea. Il suo nome è Ciccina Circè (nome potente ed evocativo), uno dei personaggi più affascinanti e ammalianti di Horcynus Orca. Ciccina Circè è una maga perché da tale si comporta. Ciccina trasporta ’Ndrja in Sicilia e poco prima che i due approdino a riva, è come se la femminota facesse un incantesimo. ’Ndrja, a causa del buio della notte, non la vede ma la sente parlare, Ciccina gli spiega che una con il cuore come il suo deve sapersi difendere, gli racconta del suo amante Baffettuzzi che partì per la guerra, parla di Musolino (ovviamente un rimando al duce) che impose la camicia nera e dell’amante che al posto della guerra a letto preferì la guerra vera e propria, spezzandole il cuore.
«Quel Musolino, quello lì che gl’impose a tutti la camicia nera a lutto, quello, il bandito vero, che stava sciolto, non l’altro che stava incarcerato e aveva la nomina di bandito, mentre era galantomo e giustiziere, quel Musolino, quel giorno, dichiarò guerra: tanto, per lui, era come andare al cesso. Eh, che giorno, che giorno, Ciccinella mia: come ti paperiavi tutta dell’uomo tuo, girando per Messina. Baffettuzzi, pensavi, non se ne va in piazza a gridare duci, duci a un altro uomo: duci, duci, lui te lo diceva a te, nell’intimo più intimo, più salata ti sentiva, più ti diceva dolce. Eh, che giorno, che giorno: se invece di quello, era un altro qualsiasi, forse non ci provavi tutto quel piacere, eh? Perché, mentre tutti andavano in cerca di fucili e baionette, tu invece pensavi alla forbicina e pettinino per Baffettuzzi. Iate, iate, ti veniva di dire, iate voi, alla guerra, perché Baffettuzzi, la sua guerra, se la fa a letto con Ciccina.»
Arrivati in Sicilia, ’Ndrja sa di doversi concedere per ricambiare il favore. I due hanno un rapporto sessuale e dopo l’amplesso Ciccina Circè rimette l’imbarcazione in mare. Si conclude così la prima parte di Horcynus orca, ’Ndrja è finalmente tornato a casa.
La lingua darrighiana e la dissacrazione del fascismo in Horcynus Orca
All’inizio del romanzo, quando ’Ndrja e i soldati incontrano le femminote, due di loro, Cata e Peppinagaribalda, litigano e il loro battibecco termina con Cata che va a fare pipì in una maschera di gesso che riproduce il busto di Mussolini, atto di dissacrazione nei confronti del duce. Questo non è l’unico riferimento al duce che, in gran parte del romanzo, viene chiamato duciamaro, un termine che indica una contrapposizione dato che “duci”, in siciliano, significa dolce.
D’Arrigo utilizza un linguaggio anti-accademico, basso, volgare e colmo di dialettismi continui come, per esempio lazzariare, nuovoliare, mammalucchine, n’tartarato, zito, sdiluvio, smaccatamente, muccuselli).
Non si deve dimenticare – infatti – che il romanzo è ambientato negli anni della Seconda guerra mondiale, negli anni del fascismo di cui uno degli obiettivi era proprio la lotta al dialetto. Lotta alquanto opinabile poiché il MinCullPop (Ministero della Cultura Popolare) – durante il regime fascista – aveva vietato le rappresentazioni in dialetto fatta eccezione per il dialetto veneto di Goldoni, il napoletano dei fratelli De Filippo, il siciliano di Angelo Musco. Un paradosso che si ha anche durante l’unità d’Italia quando Le miserie di monsù Travet – scritte da Bersezio in piemontese – dovettero essere riscritte in italiano perché l’Italia era stata proclamata unita.
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La lotta contro il dialetto attuata dai fascisti la troviamo in Horcynus orca, inaugurata dalla presenza di Monanin, guardiamarina veneziano, che si ostina a chiamare delfini le fere. Walter Pedullà, nell’introduzione di Horcynus orca, parla di italiano che si nutre di dialetti, così come un delfino che si nutre di fera. Viene coniato da D’Arrigo il termine delfi-fera, un compromesso, un incrocio tra maschio e femmina, tra italiano e dialetto, questo perché la lingua di D’Arrigo è androgina.
Monanin rimane basito quando sente Crocitto (un compagno di ’Ndrja) chiamare fera il delfino e tenta di convincere Crocitto e ’Ndrja sulla musicalità della parola “delfino”. Ma i due marinai ribattono, dicendo che anche il nome della tromba marina può essere musicale, ma di certo non lo è il fenomeno naturale di per sé!
Monanin è un uomo colto e domanda ai marinai se conoscono il significato della parola fera che proviene dal latino, ma Crocitto risponde dicendo che fera significa fera, non c’è bisogno di trovare un significato perché loro la chiamano “fera” per come si comporta, per le sue malazioni. Mentre Crocitto vuole rivendicare la propria lingua, la lingua della fera, il dialetto siciliano, Monanin fa il contrario. Come scrive Walter Pedullà, nella prefazione, “Il fascismo odia i dialetti, ma Monanin non è un fascista. Sennonché in odio al dialetto si comporta da fascista”.
D’altronde, ci si trova in un periodo di spaccatura in cui il linguaggio letterario novecentesco muta notevolmente: da qui la scelta di molti autori (non solo D’Arrigo, ma anche altri come Gadda, Testori, Fenoglio) di mescolare all’italiano regionalismi vari.
«Voi sapete la differenza che passa fra il sentitodire e il vistocogliocchi? È la stessa che passa, figuratevi, fra la notte e il giorno. E la notte, non so se lo sapete, è femmina e fa chiacchiere, mentre il giorno è maschio, piscia al muro e porta il fatto.»
La morte, la solitudine, l’oscurità in Horcynus orca
Morte, solitudine e notte sono la triade del romanzo darrighiano, questo si comprende dal gioco di parole che percorre tutto il romanzo: barca-arca-bara. Barca come quella di Caronte che trasporta le anime all’inferno e come quella di Ciccina che, inconsapevolmente, trasportando di notte ’Ndrja in Sicilia, lo conduce alla morte; arca come quella di Noè, uomo solo che salva gli animali; l’oscurità ovvero il non sapere cosa ci sia dopo la morte, il buio della bara quando viene chiusa.
’Ndrja, come Ulisse, torna in patria, ma a differenza dell’eroe omerico, ci torna per morire. Ritornare al luogo natio mostra già il legame che c’è fra D’Arrigo e la Sicilia. Non solo l’autore sceglie di ambientarlo nei dintorni del messinese, suo luogo natale, ma D’Arrigo inserisce anche il simbolo della Trinacria quando viene presentato il personaggio di Boccadopa che cammina con un bastone perché zoppica: “La Sicilia, me la ridà lei la gamba. Lei ne ha tre e una le è d’avanzo e quella me la rattoppo io, per malandrineria”.
Il ritorno di ’Ndrja in Sicilia è concomitante a quello dell’orca orcinusa, orcinus significa “orco proveniente dall’inferno”. Il ritorno dell’orca e quello di ’Ndrja sono collegati come le loro morti. L’inizio della terza parte del romanzo comincia con la presentazione dell’orca orcinusa, che infesta lo stretto a causa del suo odore putrido proveniente dalla cicatrice che ha sul fianco sinistro. L’horcynus orca è simbolo della morte o meglio è la morte stessa, lo spiega il signor Cama ai pellisquadre dicendo che quella che chiamano ferone ha in comune con la fera soltanto la coda piatta. Vi sono due digressioni riguardanti l’arrivo dell’orca in Sicilia per dimostrare che l’orca è portatrice di morte (quella del ’18-’19 quando appestò un padre e un figlio e quella di qualche anno dopo quando Ferdinando Currò fu trascinato fino a Malta dall’orca stessa). Se l’orca è presagio di morte, dev’essere uccisa, ma passano moltissime pagine prima che questo avvenga.
Non tutti sono d’accordo sul fatto che l’orca sia portatrice di morte perché l’orca – per quanto venga ricondotta alla morte – libera dalle fere (gli animali feroci, per l’appunto) e porta la cicirella, un banco di anguille neonate; l’orca è la morte ma porta la vita, quasi a dimostrare che non c’è vita senza morte e viceversa, come il pensiero eraclitiano della dottrina dei contrari: un’interdipendenza che si viene a creare fra bios e thanatos.
La cicatrice che l’orca ha sul fianco sinistro è la cicatrice che segnerà lo stesso ’Ndrja nel momento fatale, animale ed essere umano sono soli e moriranno da soli. L’orcaferone viene colpita dalla coda delle fere e gli inglesi le danno il colpo di grazia così come il colpo di grazia verrà dato a ’Ndrja, al tramonto, dopo circa trecento pagine dalla morte dell’orca. È come se D’Arrigo cercasse di rimandare la morte di ’Ndrja, come se non volesse davvero farlo morire, come se volesse davvero che lui possa incarnare la figura dell’eroe tornato in patria, ma alla fine ’Ndrja muore e non da eroe.
Infatti, ’Ndrja decide di partecipare a una regata per vincere dei soldi che serviranno a comprare una barca per i pescatori, per permettere loro di tornare in mare. La morte del protagonista è una morte tragicomica perché ’Ndrja sta solo provando il percorso della regata, ma si avvicina troppo alla prua delle portaerei inglesi – il traguardo – e la sentinella spara. ’Ndrja alza gli occhi, “Come se porgesse volontariamente la fronte alla pallottola che gli scoppiò in mezzo agli occhi con una vampata che lo gettò per sempre nelle tenebre.”
Horcynus orca è un romanzo intriso di morte. Oltre a quella dell’orcaferone e di ’Ndrja, vi sono tante altre morti come quella della madre di ’Ndrja, l’Acitana, muore un marinaio che non si vuole arrendere ai tedeschi, muore il delfino ucciso dall’Eccellenza fascista, muoiono in tanti e si percepisce l’orrore della guerra. Ma come scrive Walter Pedullà, vi è anche la morte simbolica come quella dei ferribò nello stretto, distrutti dalle bombe (per esempio, all’inizio le femminote parlano dei ferribò e viene ricordato il mare aranciato, aranciato perché tutto il carico delle arance finisce in mare); vi è la morte apparente di don Armandino Raciti che ha solo 37 anni e che non riesce più a ragionare, e poi c’è la morte della città di Messina, piena di macerie.
Oltre alla triade di barca-arca-bara, D’Arrigo inserisce il tris di parole “mare-amare-madre”. ’Ndrja torna nella terra natia, orfano di madre, fa l’amore nel vero senso del termine soltanto con Marosa e si lascia trasportare da lei come se fosse lei l’uomo fra i due, si lascia dondolare come una barca in mare. ’Ndrja ritorna alla madre – nell’accezione di luogo natio – attraverso il mare ed è lì che morirà.
È innegabile lo stretto contatto che ci sia fra D’Arrigo e il mare:
“Perché, il mare sembra veramente essere tutto in ogni suo punto, se si guarda come lo guardava il vecchio in quel momento, col chiaro, profondo occhio, rigonfio di tutte le lagrime che possono riempire un occhio e l’occhio trattenere e mai versare, di tutte le lagrime di cui è capace l’animo umano quando è veramente felice e quando è veramente infelice, quando felicità e infelicità non si sa più che cosa precisamente sia l’una e che cosa sia l’altra, se si può credere di provarle, sentirle e vederle confuse insieme, indecifrabilmente, in un occhio che fissa un punto del mare al tramonto e si fa rigonfio di lagrime, rigonfio di tutto il mare di lagrime che guarda.”
È lo stesso mare di lagrime dove i compagni di ’Ndrja remano per riportare il corpo senza vita dell’amico: “La lancia saliva verso lo scill’e cariddi, fra i sospiri rotti e il dolidoli degli sbarbatelli, come in un mare di lagrime fatto e disfatto a ogni colpo di remo, dentro, più dentro, dove il mare è mare”.
Ha ragione Giorgio Vasta, nel suo splendido scritto: “in Horcynus orca la scrittura si muove in cerca dell’acqua: la cerca, la trova, la inventa, ne fa un assedio. […] Leggere Horcynus orca – trascorrere del tempo nella materia di quel vuoto – vuol dire accettare che leggere significa anche, e tanto, fare buchi nell’acqua”. Di Horcynus orca si potrebbe parlare per ore perché è un’opera mondo, un romanzo che si muove in cerca del verso. Leggerlo è come fare un lunghissimo viaggio in mare, ma ne vale la pena perché “per chi lo ha scritto, per chi lo legge, questo romanzo è un destino”.