Giampaolo Pansa se ne va a 84 anni lasciando dietro di sé un notevole patrimonio culturale.
Vicedirettore di Repubblica e condirettore de l’Espresso, Giampaolo Pansa è stato probabilmente il giornalista italiano che ha lavorato per più testate. Quando lasciò l’Espresso dopo trentun anni di onorata carriera disse:
«Non volevo invecchiare nel mio angolino dell’Espresso, mi è piaciuta l’idea di partecipare ad una sfida nuova, quella di Antonio Polito e del suo editore. […] Sono un lettore della prima ora del Riformista, credo di essere il giornalista in attività che ha cambiato più testate».
Più di tutto, Pansa temeva la noia.
Giampaolo Pansa, una voce fuori dal coro
Scomodo, autonomo, impertinente, rompiscatole, come il titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2016 per Rizzoli, quella di Giampaolo Pansa è stata una voce fondamentale nella cultura nazionale, interpretando attraverso la scrittura una funzione civile – ormai perduta – del giornalismo.
«La mia autobiografia è soprattutto la mia storia professionale. Un giorno qualcuno ha detto: ciò che rimane della nostra vita è quello che abbiamo scritto. Immagino che anche per me sarà così.»
Maestro indiscutibile della parola, fu Giampaolo Pansa a coniare termini divenuti di uso comune nel raccontare la storia contemporanea “di un paese che non esiste più”: dalla famosa balena bianca per definire una DC impossibile da sconfiggere a Dalemoni per spiegare l’inciucio tra D’Almena e Berlusconi fino ad arrivare al Dittatore (Matteo Salvini), ultimo libro uscito in cui il giornalista esprime tutta la sua inquietudine per il confuso scenario politico degli ultimi anni.
La parola fu l’unica arma che Pansa usò per raccontare un’altra storia d’Italia, quel ciclo iniziato con il clamoroso, travolgente e del tutto inaspettato successo de Il sangue dei vinti nel 2003, una controstoria della Resistenza (come diceva in Bella ciao) ma che in realtà apriva il capitolo della guerra civile italiana dando voce ai vinti, cioè ai fascisti, e che gli costò l’etichetta di revisionista.
Da quel momento in poi, le uscite dei suoi saggi – tutti bestseller – sono sempre state accompagnate da enormi polemiche che non hanno mai scalfito Giampaolo Pansa:
«Il sangue dei vinti era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti. Ed ebbe un successo di vendite travolgente che né io né l’editore ci aspettavamo. Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono più stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento.»
Quel che è successo dopo Il sangue dei vinti il giornalista lo racconta in Quel fascista di Pansa, con una piccola indicazione per i lettori:
«Raccomando agli eventuali lettori di considerarlo soprattutto un ritratto del mondo di oggi dove i faziosi e i pagliacci siedono accanto a persone serie che hanno dimostrato di avere fiducia in me narrandomi le loro storie.»
Un saluto a un tizio a cui non andava né di obbedire né di comandare, che cercava di vedere le cose con un occhio insolito, inoltrandosi su terreni che nessuno voleva esplorare.
«Sono stato così? Lo deciderà chi legge.»