«Illumino spesso gli altri ma io rimango sempre al buio». Bastano queste poche parole, quasi un autoritratto a penna, una fotografia in bianco e nero a illuminarci ancora e di nuovo, a tredici anni dalla sua morte. «Sono nata il ventuno a primavera|ma non sapevo che nascere folle,|aprire le zolle|potesse scatenar tempesta».
Alda Merini, la poetessa dei Navigli, la poetessa dell’amore non ha mai smesso di incantarci, nata il 21 marzo, primo giorno di primavera, spentasi d’autunno nel giorno dei Santi, il primo novembre del 2009. A lei è dedicata l’antologia che Bur pubblica in occasione dell’anniversario; s’intitola Respiro nella notte e raccoglie il meglio della produzione di Alda Merini, sia in poesia sia in prosa, dai testi più noti agli scritti oramai introvabili. Quasi ottocento pagine, impreziosite dalle illustrazioni di Alberto Casiraghi e Francesco Ripoli e dalle fotografie di Giuliano Grittini, in cui perdersi e ritrovarsi, con cui emozionarsi, con cui venire a patti con la vita.
Alda Merini è stata la poetessa della contemporaneità, tra le voci letterarie più note, amate e citate del nostro tempo, e difatti questa nuova antologia – «un omaggio al talento inarginabile della poetessa», scrive l’editore – spazia dalle poesie di Un’anima indocile, La volpe e il sipario e Le madri non cercano il paradiso agli Aforismi e magie illustrati dal poeta e fondatore delle edizioni Pulcinoelefante Alberto Casiraghi, dai testi di prosa quali Lettere a un racconto a La nera novella, unico esperimento noir della sua ampia produzione.
«Se esiste un filo rosso che collega le poesie e le prose pubblicate da Bur in questo volume», scrive Michela Marzano nell’introduzione a Respiro nella notte, «è un filo fatto di follia, amore, corpo e verità. Che è poi tutto ciò che ci guida quando smarriamo il bandolo della matassa della nostra esistenza, e abbiamo la sensazione di andare alla deriva. Proprio come Alda che, negli anni in cui la sofferenza psichica non era ancora accolta all’interno dei discorsi e chi ne soffriva doveva fare i conti con la brutalità del contenimento e degli elettrochoc, si aggrappa alle parole mostrandone la forza».
Alda Merini esordì molto presto: non ha ancora sedici anni quando l’amica Silvana Rovelli, cugina di Ada Negri, mostra alcune delle sue poesie allo scrittore Angelo Romanò il quale, a sua volta, le fa leggere al critico letterario Giacinto Spagnoletti. Nel 1947 cominciano a manifestarsi i primi segni della malattia mentale. Nel 1950 alcuni dei suoi versi vengono raccolti nella Antologia della poesia italiana 1909-1949 pubblicata da Guanda; l’anno dopo altre sue poesie verranno incluse nel volume Poetesse del Novecento. Nel 1953 verrà pubblicato da Schwarz il suo primo libro di versi, La presenza di Orfeo, accolto con grande favore dalla critica, e nello stesso anno Alda Merini si sposa con Ettore Carniti, matrimonio da cui nasceranno le figlie Emanuela e Flavia. Nel 1958 Salvatore Quasimodo, a cui la Merini è legata da rapporti di amicizia e lavoro, pubblica alcune sue liriche nel volume Poesia italiana del dopoguerra.
«Le vicende umane e letterarie di Alda Merini sono la stessa cosa», scrive Alba Donati nell’introduzione a Colpe di immagini, che la nuova antologia Bur ripropone con i ritratti in bianco nero scattati da Giuliano Grittini, fotografo e artista che ha lavorato con personaggi del calibro di Andy Warhol e che fu legato ad Alda Merini da una profonda amicizia. «L’elaborazione è allo stesso modo elaborazione poetica e psicologica», dice Alba Donati dell’opera della poetessa. «Scrivere è far fronte al male, ma anche qualcosa di più. Scrivere e ricordare è interpretare, come ogni scrittore dovrebbe fare, l’oscuro alfabeto della vita umana».
Scrive Alda Merini nel racconto La pazza della porta accanto:
«Comincio a capire di essere stata fraintesa; io non ero un poeta, devo essere stata un grande fachiro, un saggio. Ho sopportato cose ignobili senza fiatare, cercando le ragioni del male. Ho capito che il male non c’è come non c’è il bene. Allora sono diventata nichilista: al mattino mi misuro la pressione, mi tasto il polso e penso a quante ore mi mancano prima di salire al patibolo che è la vita. Offro la testa ai miei editori che mi lasciano andare ancora una volta. Così come avveniva anni fa in manicomio, quando ogni giorno ci chiamavano e ci facevano l’appello per poi lasciarci andare: una tortura durata dieci anni. Fino a che una grande folata di vento, forse una grazia, forse una grande magia, mi portò fuori da quei cancelli. E cominciai a chiedermi perché mai fossi entrata e questa divenne una seconda tortura.
Quando qualcuno mi offre il suo amore, penso che mi stia imbrogliando, quando un medico vuole guarirmi, penso che non tornerò più da lui e così mi nascondo all’amore. Sono attaccata al mio manicomio come alla vita medesima.»
Nel 1965 ha inizio il doloroso internamento manicomiale presso il Paolo Pini di Milano, che proseguirà fino al 1972. Durante i rari periodi di dimissione, nascono le altre due figlie Barbara e Simona. Il silenzio poetico in cui, anche a causa della malattia, Alda Merini si è chiusa, si interrompe nel 1979, quando dà avvio alla scrittura di alcuni tra i suoi componimenti più intensi, soprattutto quelli de La Terra Santa (Scheiwiller 1984; Premio Cittadella 1985). Rimasta vedova nel 1983, Alda Merini sposa due anni dopo il poeta tarantino Michele Pierri. Sono anni difficili, durante i quali conosce gli orrori dell’ospedale psichiatrico di Taranto. Rientrata a Milano nel 1988, riprende a pubblicare. Nel 1993 le viene assegnato il Premio Librex-Guggenheim «Eugenio Montale» per la Poesia, nel 1996 il Premio Viareggio, nel 1997 il Premio Procida-Elsa Morante e nel 1999 il Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri Settore Poesia. Nel 2001 apparirà il suo nome tra le candidature al Premio Nobel per la Letteratura.
«La scrittrice milanese», scrive ancora Michela Marzano nell’introduzione al volume, «non ha mai cessato di camminare sull’orlo del precipizio: ne è stata sempre fin troppo consapevole; a tratti, lo ha persino rivendicato. Ma è dagli abissi della sofferenza che ha tratto la linfa vitale dei suoi scritti più belli. Sempre alla ricerca di quella verità nascosta sotto cumuli di menzogne e di finzioni. Sempre attenta alle parole giuste per nominare le mille sfumature della vita. Alda Merini, d’altronde, ha questo di potente: il non accontentarsi dei sotterfugi e dell’apparenza, detestando ogni tentativo di camuffare la verità».
Tra le pagine in prosa de La polvere che fa volare, la poetessa dei Navigli ricorda e racconta:
«È come quando qualcuno va dalla Merini e decide di lavarle i vestiti perché è distratta. E portano via la polvere che le piace tanto. Non so se esistano le ali della farfalla, ma è la polvere che la fa volare.
Ogni uomo ha le piccole polveri del passato che deve sentirsi addosso, e che non deve perdere. Sono il suo cammino. Anche in manicomio dicevano: “Lavateli”. No, io voglio sentirmi sporca, sporcata anche dalla fama, d’altronde.
“Le lavo le maglie così è pulita” mi dicono. Pulita ma infelice.»
Le madri non cercano il paradiso, silloge che occupa la parte finale dell’antologia Bur, «coincide tristemente con la morte di Alda Merini», scrive Silvio Scorsi nella nota ai lettori. «Difficilmente nell’orizzonte della poesia contemporanea italiana potremmo trovare una corrispondenza tra parola e vissuto maggiore, vale a dire più completa e straziante, di quella rilevabile nel lavoro della Merini, ad ogni istante partorita e rivivente nei suoi stessi versi. La poesia per lei non era separata dal linguaggio d’ogni giorno, non era l’eccezione di un’ispirazione volubile e momentanea, ma la regola di un costante stato di illuminazione, che conferiva al suo dire un carisma oracolare».
Nuove magie, raccolta di testi illustrati da Francesco Ripoli – tra i più apprezzati fumettisti italiani il cui esordio nel 2007, Ilaria Alpi, il prezzo della verità, gli valse diversi riconoscimenti – chiude Respiro nella notte su quest’ultimi versi, per tornare a illuminarci:
«Forse il manicomio esiste per questo.
Perché il vero peccato mortale per gli uomini è la libertà.»