Ci sono diverse ragioni per rileggere (o per leggere per la prima volta) Anna Politkovskaja. Giornalista russa, inviata del giornale indipendente “Novaja Gazeta”, uno dei principali quotidiani dell’opposizione russa, dal 1999 Anna Politkovskaja è stata corrispondente dal fronte di guerra del Caucaso, divenendo celebre in Russia e all’estero per i reportage dalla Cecenia, per le testimonianze di prima linea del sequestro al teatro Dubrovka di Mosca e della strage di bambini di Beslan, per la sua opposizione a Vladimir Putin. Il 7 ottobre 2006, nel giorno del compleanno di Putin, è stata assassinata sulle scale di casa sua, nel centro di Mosca, in circostanze non ancora chiarite.
Anna Politkovskaja ha dedicato la sua vita a raccontare la verità senza censure né remore nell’accusare Putin e nel parlare di genocidio, ha lottato per difendere la libertà di stampa contro ogni tentativo di zittire la propria voce e quella di molti colleghi giornalisti uccisi prima di lei.
Un piccolo angolo d’inferno, che Bur riporta in libreria con la prefazione di Francesca Mannocchi, è il reportage dal fronte dimenticato della Cecenia, di cui Anna Politkovskaja ha svelato verità e orrori, testimonianza unica da una terra e da un popolo sconvolti dalla guerra, testo premonitore per comprendere le contraddizioni più profonde della Russia di Putin che hanno portato al conflitto in Ucraina scoppiato il 24 febbraio del 2022.
Francesca Mannocchi e Anna Politkovskaja: reporter a confronto
Nelle pagine della prefazione Francesca Mannocchi, reporter di guerra come lo è stata Anna Politkovskaja, come lei tra le più stimate e accreditate a raccontare le guerre stando sui fronti caldi del pianeta laddove la libertà, la democrazia, i diritti umani sono in pericolo, tra le giornaliste più impegnate a investigare in nome della verità fattuale, a difesa del diritto dei cittadini a essere informati, spiega perché, tra le tante ragioni, oggi è così importante rileggere Politkovskaja. «Perché Anna Politkovskaja ci ha lasciato non solo i resoconti di una guerra ma un manuale di metodo giornalistico che diventa, oggi, la cronaca di un avvertimento inascoltato: questa è la prassi per Putin», ci spiega Mannocchi, di cui da un anno a questa parte leggiamo e ascoltiamo i suoi reportage dall’Ucraina. «Molti hanno paragonato l’invasione russa dell’Ucraina alla seconda guerra cecena e in effetti le guerre in Cecenia raccontate da Anna Politkovskaja possono essere lette come l’avvertimento di quello che sarebbe accaduto altrove».
Nelle prime righe de Un piccolo angolo d’inferno, Anna Politkovskaja si chiede Chi sono io? E perché scrivo della Seconda guerra cecena?
«Sono una giornalista, un’inviata speciale del quotidiano moscovita “Novaja Gazeta”, e questa è l’unica ragione per cui ho visto la guerra in Cecenia: sono stata mandata sul campo. E non perché fossi una corrispondente di guerra o conoscessi bene questo conflitto, ma al contrario, perché ero solo una ‘civile’. L’idea del direttore della “Novaja Gazeta” era semplice: il mero fatto che io fossi una civile mi avrebbe permesso di comprendere l’esperienza della guerra più a fondo di chi, vivendo nelle città e nei villaggi ceceni, la subiva giorno dopo giorno. Tutto qui».
Tutto qui. A partire dal luglio del 1999, Anna Politkovskaja è tornata in Cecenia ogni mese. A metà degli anni Duemila, ci racconta Francesca Mannocchi, Anna Politkovskaja aveva compiuto almeno cinquanta viaggi in Cecenia.
«Ho viaggiato in lungo e in largo per tutto il Paese e visto tanta sofferenza; la cosa peggiore è che molte delle persone di cui ho scritto negli ultimi due anni e mezzo oggi sono morte. È una guerra terribile; medievale, letteralmente, anche se la si combatte mentre il Ventesimo secolo scivola nel Ventunesimo, per giunta in Europa». Parole che risuonano come echi tanto incredibilmente ravvicinati di quel che sta accadendo oggi sul fronte ucraino. Un testo premonitore, si diceva. «Vale la pena rileggere oggi le dense pagine di Anna Politkovskaja», insiste Francesca Mannocchi, «perché quella guerra è stata la prima in cui Putin ha sviluppato e messo in atto un metodo per affermare il suo dominio, la strategia della terra bruciata: l’uso dell’artiglieria pesante sulle aree residenziali, l’attacco indiscriminato dei centri urbani, il rapimento e l’incarcerazione di leader e giornalisti locali e la loro sostituzione con leali collaborazionisti, l’utilizzo dei rifugiati e della fame come armi.»
«Un conflitto senza speranza», scriveva nel luglio del 2002 la giornalista russa. «La Seconda guerra cecena è cominciata da trentatré mesi, e ancora non si vede la fine di questo conflitto senza speranza. Le violenze, le spedizioni punitive dell’esercito contro la popolazione civile continuano indisturbate, come degli autodafé di massa; la tortura è la norma, le esecuzioni senza processo sono routine, le razzie e i saccheggi un luogo comune. Ogni giorno i soldati federali rapiscono civili per venderli come schiavi se restano in vita, per commerciarne gli organi se muoiono. Il ‘materiale umano’ scompare durante la notte e non ne resta traccia, proprio come nel 1937. La mattina dopo, alle periferie delle città compaiono corpi mutilati e sfigurati, buttati lì durante il coprifuoco. Per centinaia, migliaia di dannate volte mi tocca sentire bambini per le strade del villaggio che parlano di quale tra i loro vicini di casa sia stato ritrovato morto e in quali condizioni. Ieri a quel tizio hanno fatto lo scalpo, oggi a quell’altro hanno tagliato le orecchie o le dita…».
Le premonizioni di Anna Politkovskaja
Perché leggere questo libro? si chiede anche il professor Georgi M. Derluguian, docente e storico nella postfazione originale scritta per Un piccolo angolo d’inferno che, ripercorrendo la geografia e la storia della Cecenia dai tempi più antichi fino allo scoppio della guerra civile, ci aiuta ancora meglio a comprendere. «La prima, inevitabile domanda è: perché leggere questo libro? Fatto in gran parte da storie personali, molte delle quali parlano di gente morta. Anna Politkovskaja non ci risparmia nulla della brutalità della guerra. Leggere un libro come questo è un’impresa moralmente impegnativa, forse perché scoprendo che cosa accadde in Cecenia s’impara qualcosa sul mondo intero, non soltanto su un angolo sfortunato dell’Est postcomunista».
Non solo. In un’epoca in cui la libertà di stampa è sotto attacco, il professor Derluguian ci ricorda in un modo tanto chiaro quanto suggestivo la scelta di vita fatta da Anna Politkovskaja, tra le tante ragioni per leggere Un piccolo angolo d’inferno: «Il plauso del pubblico e la stima professionale contano anche nel giornalismo, ma la loro importanza sbiadisce in periodi di acuta tensione politica, quando le persone agiscono per fini ritenuti molto più importanti degli interessi personali e della vita stessa. Per cercare il successo professionale, la Politkovskaja avrebbe potuto scegliersi certamente un argomento meno gravoso e pericoloso su cui scrivere. In Cecenia sono stati uccisi più di venti giornalisti dall’inizio della prima guerra, nel 1994», scriveva il professore nel 2003. «Molti altri sono stati sequestrati, perseguitati, imprigionati e gravemente picchiati, cosa che la stessa Politkovskaja sa bene per esperienza personale, come racconta nel libro. La giornalista è stata anche obiettivo di minacce di morte che l’hanno costretta a lasciare la Russia per un periodo, tuttavia è sempre tornata in Cecenia per riportare le cronache di una guerra agghiacciante, che altrimenti non avremmo».
Tuttavia Anna Politkovskaja è sempre tornata in Cecenia, a rischio della propria vita. Ha camminato sotto le bombe insieme ai profughi ma nella sua narrazione «evita di schierarsi, come avviene molto di frequente nei resoconti occidentali su questa guerra: non distorce romanticamente la realtà della guerriglia cecena», sottolinea il professor Derluguian. L’attenzione della giornalista va «ai civili, ai medici e specialmente alle donne, sia cecene sia russe, che vivono nella piccola repubblica dall’epoca sovietica e che ora sono intrappolate dalla guerra. Questa donna notevole trova la forza morale per avere pietà dei soldati russi abbrutiti e dei poliziotti, molti dei quali soffrono senza dubbio di seri disagi psicologici, alcolismo e abuso di droghe».
Sopravvissuta a un tentativo di avvelenamento, Anna Politkovskaja ha provato sulla propria pelle l’arresto, le violenze, la paura, come racconta lei stessa in Un piccolo angolo d’inferno. Immaginava la propria morte, come ci racconta e ci emoziona, col suo modo personale, autobiografico, la reporter Francesca Mannocchi: «Capita talvolta di immaginare la propria morte. Stesi su un letto d’ospedale, soli o circondati dai propri cari, morti per una malattia, o un incidente. Capita di immaginare la propria morte e cacciare via il pensiero come si cacciano via le mosche d’estate. Anna Politkovskaja non poteva allontanarne il pensiero perché la morte la seguiva alle calcagna, era sopravvissuta alle minacce, a una cattura, a un tentativo di avvelenamento. Il pensiero della fine era con lei sempre. Anna Politkovskaja conosceva la paura come la conoscono gli esseri umani coraggiosi, affrontandola con la solitudine cui spesso sono destinati mentre gli altri assistono in silenzio alla loro morte annunciata. Così è stata la sua, giornalista che aveva lavorato nell’unico modo che riteneva possibile, in mezzo alla gente e dalla parte di nessuno, per questo invisa al Cremlino, ai signori della guerra ceceni, e all’altro giornalismo, quello prono, condiscendente».