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Elif Shafak racconta tre vite legate da una goccia d’acqua

Sono quattro i protagonisti di questa sorprendente storia dai destini incrociati: Arthur “Re Artù di Cloache e Catapecchie”, nato nella Londra di metà Ottocento sulle rive del Tamigi nella miseria più totale ma con il dono di una memoria straordinaria; la piccola turca Narin, affetta da sordità, che a nove anni appena conoscerà l’orrore del fondamentalismo islamico nell’Iraq del 2014; Zaleekhah, studiosa di idrologia che nel 2018 si rifugerà su una casa-chiatta sul Tamigi, stanca della vita ma non delle sue ricerche sull’acqua; infine, una pura e semplice goccia d’acqua, caduta sulla fronte di un re despota secoli e secoli prima.

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È da questa goccia d’acqua che tutto ha inizio, nel nuovo romanzo di Elif Shafak, I ricordi dell’acqua, appena arrivato in libreria per Rizzoli con la traduzione di Daniele A. Gewurz e Isabella Zani. È un romanzo corale significativamente suggestivo, evocativo, contemporaneo al cui riguardo Arundhati Roy, la scrittrice indiana vincitrice nel 1997 del Booker Prize con Il dio delle piccole cose e perseguitata dal regime indiano, ha scritto: «Riservate un posto nella vostra libreria per Elif Shafak. Ma fatele posto anche nel vostro cuore, non ve ne pentirete».

Sostenitrice dei diritti delle donne, dei diritti LGBTQ+ e della libertà di espressione, Elif Shafak è stata insignita della medaglia di Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres nel 2017 e i suoi libri – venti in tutto, di cui 13 romanzi – sono stati tradotti in 57 lingue.

Elif Shafak indaga il rapporto tra l’uomo e la natura

Con questo suo nuovo romanzo, la scrittrice turco-britannica, che da molto tempo vive a Londra, compone un romanzo che attraversa il tempo e lo spazio, indaga il rapporto tra l’uomo e la natura, incrocia i destini di popoli e identità ai quattro angoli del mondo raccogliendone le eredità culturali, e dà voce agli esclusi e alle vittime della violenza dei potenti, a quanti sono messi a tacere dalla tirannia nelle sue forme più o meno conclamate o subdole, ai dimenticati dalla storia e dalla società, a tutti coloro che nascono senza nessuna apparente speranza di sfuggire a una sorte impietosa.

Assurbanipal è il re tanto colto quanto tirannico e sanguinario di Ninive, la città più splendente della Mesopotamia nel VII secolo avanti Cristo, capitale dell’Assiria edificata sulla riva orientale del Tigri. Assurbanipal, “l’imperatore dei quattro angoli del mondo”, come viene chiamato dai suoi sudditi, “il re bibliotecario” come verrà ricordato nei secoli a venire, sta leggendo un frammento di un poema epico inciso su una lastra di lapislazzuli: è l’epopea di un eroe, Gilmamesh, che lui conosce «come le linee della sua mano», lo studia da quando era un giovane principe e ora lo sta rileggendo nella sua immensa biblioteca, l’opera di cui va più fiero, che raccoglie migliaia di tavolette d’argilla. «Il re sa bene che per dominare un’altra cultura bisogna sottrarle non solo le terre, i raccolti e gli altri beni, ma anche l’immaginazione collettiva, i ricordi condivisi». Ed è poco prima di entrare nella sua biblioteca, il cui ingresso è fiancheggiato da due statue gigantesche, i lamassu, creature ibride per metà umane e per metà animali considerate spiriti protettori, che dal cielo cade una goccia d’acqua che gli si fermerà tra i capelli e lì rimarrà mentre lui legge quella tavoletta che è diversa da tutte le altre conservate nella biblioteca, e non tanto perché è incisa su pietra preziosa, ma perché «è macchiata dalla blasfemia», dall’atto di ribellione di uno scriba dissidente.

«Ci sono sovrani avidi d’oro e rubini, di sete e arazzi, di piaceri carnali: Assurbanipal adora le storie. È convinto che per guidare con successo gli uomini non si debba intraprendere un viaggio pericoloso come Gilgamesh, né diventare vittoriosi conquistatori pieni di muscoli e vigore. E tantomeno traversare montagne, deserti e foreste da cui pochi ritornano. Basta un racconto memorabile, con se stessi al centro come eroi.»

Il nuovo romanzo di Elif Shafak parte da una goccia d’acqua caduta

Quella goccia d’acqua caduta sul capo di re Assurbanipal sarà foriera di un destino che cambierà il corso della storia, la prima di molte gocce d’acqua trasportate da un’inondazione che distruggerà la biblioteca di Ninive e trascinerà con essa i tesori e i segreti di un popolo, nei secoli, dal Medioriente al cuore dell’Occidente.

Quando viene al mondo, sulle rive del Tamigi in un mattino gelido del novembre del 1840, Arthur è tutt’altro che un eroe. A partorirlo è una giovane povera madre che si guadagna da vivere in mezzo ai rifiuti insieme agli altri “ramazzini” che setacciano le acque fetide del Tamigi, «inquinato da scarti industriali, rifiuti marcescenti, scarichi di fabbriche, carogne animali, cadaveri umani e liquami non trattati», in cerca di oggetti di valore da rivendere: rottami di ferro, monete di rame, posate d’argento. Sulle rive del fiume abbandonato e oltraggiato dagli uomini, i ramazzini lo battezzeranno come “Re Artù di Cloache e Catapecchie”, ignari che sarà invece forse la suggestione di quel nomignolo a trasformare l’esistenza di Arthur in una vita straordinaria, in un racconto incredibile qual è quello intessuto in queste pagine da Elif Shafak.

Narin ha nove anni, è turca, fa parte della comunità degli yazidi e un giorno di tarda primavera del 2014 sta per essere battezzata con l’acqua benedetta che viene dalla valle di Laliş, in Iraq. «“Possa la vita essere gentile con te, piccina. E, quando non lo sarà, possa tu trarne maggior forza” salmodia il decano». Il battesimo non verrà mai celebrato, interrotto dalla marcia di un bulldozer che costringe la piccola comunità religiosa a fare ritorno nelle proprie case. Il governo turco ha destinato quei terreni alla costruzione della diga di Ilisu: non appena il livello dell’acqua toccherà i sessanta metri, Hasankeyf, l’antica cittadina sulle sponde del Tigri dove Narin vive con il padre rimasto vedovo e con la nonna – una rabdomante, una scopritrice d’acqua –, sarà inondata e migliaia di persone, tra cui la famiglia di Narin, dovrà emigrare, dovrà cercare una terra dove poter essere accolte. Prima però, per portare a termine la cerimonia battesimale, la nonna deciderà di portare Narin in Iraq, nella valle di Laliş, dove la vita purtroppo non sarà affatto gentile con Narin, costringendola a fare i conti con la brutalità degli jihadisti.

Nel 2018, a Londra, la dottoressa Zaleekhah Clark sta per trasferirsi in una casa galleggiante sul Tamigi, a Chelsea. Tra le poche cose che si è portata con sé, dopo aver lasciato il marito, c’è una statuetta di porcellana: è un lamassu, regalo di compleanno d’infanzia da parte dello zio con cui è cresciuta dopo la morte dei suoi genitori in un tragico incidente. Zaleekhah è una scienziata, studiosa di idrogeologia. Negli ultimi anni di vita il suo professore, con cui lei si era formata come ricercatrice e con cui era nata una speciale e rara affinità elettiva, si era messo a lavorare a un’ipotesi che aveva soprannominato “la memoria acquea”.

«Asseriva che in talune circostanze l’acqua – solvente universale – conservava la traccia, o “memoria”, delle particelle che le si erano sciolte dentro, indipendentemente dalle successive diluizioni o purificazioni. Potevano trascorrere anni, o secoli, e poteva non essere rimasta alcuna molecola originale, ma ciascuna goccia d’acqua manteneva una struttura unica, distinguibile da un’altra, segnata per sempre da ciò che aveva un tempo contenuto. L’acqua, in altre parole, ricordava.»

L’acqua non cessa ancora di stupire Zaleekhah: «resiliente da non credersi ma anche vulnerabilissima, una forza in via di essiccazione, di estinzione» e lei, Zaleekhah, «non ha più voglia di vivere. Vuole accomiatarsi da un mondo dove troppo spesso si sente un’intrusa, una goffa e confusa ritardataria, un’ospite casuale che ha imboccato la porta sbagliata al momento sbagliato».

Tre vite legate da una goccia d’acqua

Hanno un che di epico e di saggio le pagine di questo romanzo, per come, tra suggestioni storiche e rimandi alla contemporaneità, ci accompagna lungo il racconto di queste tre vite, che segueno inconsapevoli la traccia di quella prima goccia d’acqua caduta sul capo del re Assurbanipal.

«Se, come dicono i poeti, il viaggio della vita somiglia alla marcia di un fiume verso il mare, talora inutilmente tortuosa e talora costante e diritta alla meta, allora l’ansa nel suo fluire è il punto in cui la vicenda fa una svolta repentina e si allontana dal corso previsto per imboccare una direzione nuova e inattesa.» Sarà così per tutte e tre i protagonisti, per Narin, per Zaleekhah e, prima di loro, per Arthur. Per vie che certo non vi illustreremo, Arthur diventerà apprendista in una delle più importanti stamperie e case editrici dell’Inghilterra dell’Ottocento e da qui, lungo altre vie inimmaginabili da quei ramazzini che lo avevano fatto nascere sulle rive del Tamigi, entrerà al British Museum di Londra non da visitatore ma da membro del personale, accolto dal curatore delle antichità orientali e della “Collezione Ninive”. E da qui, ancora una volta, si avventurerà in un altro nuovo lungo viaggio straordinario e inatteso. Perché, forse, come dice ad Arthur il signor Bradbury, proprietario e fondatore della tipografia, «le parole sono come uccelli. Pubblicare libri significa liberare uccelli in gabbia. Possono andare dove gli pare. Possono superare in volo muri altissimi e grandissime distanze, per posarsi in ricche dimore, case coloniche e alloggi operai. Non si può mai sapere chi raggiungeranno, quali cuori cederanno al dolce canto delle parole».