Ivan Zaytsev: fra pallavolo e beach volley il racconto di come si è guadagnato il soprannome di Zar, tra amore e guerre. Una storia di determinazione e successo, sacrifici e colpi di testa, battaglie dentro al campo e amicizie fuori, scritta con l’aiuto del giornalista sportivo Marco Pastonesi.
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Leggi un estratto da Mia, di Ivan Zaytsev con Marco Pastonesi
Solo contro tutti.
Ma io ho la palla: è pesante, è incandescente, è decisiva, è vinci o perdi, è muori o sopravvivi, è muori e risorgi, è una pistola e un proiettile, è un cannone e una bomba, è un missile, un’atomica o un cavallo di Troia, è una lavatrice o un Frecciarossa, è un esame di coscienza o un esame di Stato, è un pezzo di storia e un pezzo di vita, è un pezzo di me. È mia.
Io che batto, loro che ricevono, rispondono, contrattaccano. Circondato, assediato, anche aspettato e controllato, anche studiato e sezionato, ma ho la palla, e la palla, per quanto pesante e incandescente, è mia, e se la batto come devo battere, come devo batterla, come so e posso batterla, per loro diventerà pesantissima e ustionante. Soprattutto se faccio un ace, se estraggo e calo l’asso, se conquisto il punto, magari il set, magari la partita. Servizio vincente. Servito e riverito: io. Serviti e spazzati, spezzati, atterrati, asfaltati: loro.
Ho i cinque metri per il lancio e la rincorsa, miei, ho i sei metri della zona di difesa e i tre della zona di attacco, nostri, e i tre metri della zona di attacco e i sei della zona di difesa, loro, ho la linea, la mia, che io non posso sfiorare con i piedi, ma ho anche la linea, la loro, che se la palla la accarezza è punto, e in mezzo ho la rete, nove metri di lunghezza per la larghezza del campo, più ottanta centimetri da una parte e ottanta dall’altra e poi il cavo, la rete che è anche filo spinato e minato, confine e dogana, limite del possibile e dell’impossibile, e tra possibile e impossibile, a due metri e quarantatré di altezza. Devo sparare una bomba a mano, una frustata a tutto braccio, una racchettata senza racchetta, una frecciata senza arco, una fucilata senza fucile, perché sono io la racchetta, sono io l’arco, sono io il fucile. E siamo io e loro. Soltanto io e loro. Ma io ho la palla. Ed è mia.
I sei avversari mi guardano, e io guardo loro. Ondeggia un’aria che sa di mistero e soggezione, un’aria che sa anche di pericolo e bellezza. Frigge. E non esiste altro, in quel momento: né perché né quando, né palazzetto né spettatori, né ieri né domani, e neppure l’oggi, solo l’adesso, e addirittura non esistono i compagni di squadra in campo o in panchina. Siamo io e loro. Io, da solo, e loro, cioè tutti. Ma io ho la palla. Ed è mia.
Una battuta come dio comanda, e li anniento. Una battuta come si deve, e li cancello. Una battuta dall’alto dei cieli e non basta un uomo di buona volontà, ma neanche un santo, a salvare la baracca. Una battuta che tolga il tempo di reagire, il fiato per respirare, lo spazio per tuffarsi. Una battuta per spogliarli, denudarli e denunciarli, smascherarli, per avvilirli pubblicamente, apertamente, spudoratamente, e per trasformare le loro certezze in dubbi, e poi i loro dubbi in ansia, in timori, in paure, e poi la loro paura di vincere in terrore di perdere fino alla perdita di sé e della partita, fino alla sconfitta. Li incroci, i loro occhi, anche attraverso la rete. Sostieni lo sguardo, lo restituisci con gli interessi, con gli interessi di uno strozzino. Non servono parole o gesti, non servono neanche slogan e mantra, comandamenti e postulati. Servono solo gli occhi: lo specchio dell’anima, la trama della partita, il film della storia.
Palleggio. È un preliminare, un preludio, la pagina bianca – la prima pagina, fuori dal conto – di un libro. Poi lancio in alto la palla con la destra, piede destro avanti e sinistro dietro, tre passi, il primo è con il sinistro, intanto alzo la palla, carico sul destro, stacco sul sinistro, salto, volo, mi arcuo, mi tendo, mi libero, esplodo, colpisco. È un appuntamento acrobatico, è una danza chirurgica, è un rito circense, è una brillante eiaculazione. È un tuffo dalla piattaforma, è casco e orecchie per terra, è un diretto al mento. È la mia battuta. Mia.
La palla è di materiale sintetico fuori e di caucciù dentro, ha una circonferenza tra i sessantacinque e i sessantasette centimetri, è formata da diciotto pannelli incollati sulla carcassa e gonfiata a una pressione fra duecentonovantaquattro e trecentodiciotto millibar, pesa fra i duecentosessanta e i duecentottanta grammi: a cento, centoventi, centoventisette chilometri all’ora, rotanti per l’effetto impresso al momento della battuta, la palla si trasforma in una equazione, massa in chilogrammi per velocità in metri al secondo elevata al quadrato. Lampo, tuono e tornado, tutto insieme. Un piccolo big bang. Dalla mia mano al ricevitore, in poco più di quattro decimi di secondo, in poco più di quaranta centesimi di istante – neppure il tempo di un respiro, ed è per questo che si fa tutto in apnea – piomba una scarica elettrica di ottocento watt, una bomba esplosiva come un gancio di Mike Tyson, una pedata di Cristiano Ronaldo, una pedalata di Fabian Cancellara, e il ricevitore la deve catturare, domare, addomesticare, addolcire. La battuta è un battito di ciglia, ma se batti le ciglia la palla ti sbatte addosso: e fa male.
Non esiste nulla al mondo che mi faccia godere come un ace. Solo contro tutti. Vincente. E non ditemi che non fa godere anche voi.