Se hai una passione irrefrenabile per i libri e se ami perderti tra gli scaffali di una libreria per uscirne con una borsata di novità editoriali, I racconti del libraio sono per te. Non ti sentirai più in colpa per lo shopping compulsivo e per la pila di libri sul comodino, perché questi racconti ti convinceranno (se ce ne fosse bisogno) che leggere è un bene e che i libri vanno considerati un patrimonio dell’umanità nello stesso modo in cui lo sono diventate le bancarelle dei libri usati lungo le rive della Senna.
A raccontarci delle bouquinistes di Parigi e di altri suggestivi mercatini in ogni angolo del mondo, di vicissitudini editoriali e di misteri psichici sull’ossessione per i libri, di aneddoti come il “Biblio-Mat”, il distributore automatico della libreria di Monkey’s Paw di Toronto dove puoi giocare puntando due dollari per ricevere in cambio un libro a caso, è un personaggio tanto credibile quanto autorevole.
Voce narrante è infatti un libraio, Martin Latham. Anzi, “il libraio”, colui il quale noi tutti bibliomani assatanati ambiremmo incontrare prima o poi nella vita, in una storica libreria di Londra o di New York, nella biblioteca buddista di Nara in Giappone o nella biblioteca più grande del mondo, la Biblioteca del Congresso di Washington. In posti vicini e lontano, nel tempo e nello spazio, ci guida Latham lungo le quattrocento pagine di questo divertente, erudito e curioso saggio che, con leggerezza di spirito e accuratezza storicistica, invita a riflettere sull’importanza della lettura in ogni epoca, illustrandoci la storia del libro dagli albori, recuperando pagine perdute come quella sui chapbook, gli antenati dei nostri tascabili che hanno permesso anche agli strati più poveri della popolazione di leggere e di imparare.
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In libreria con Rizzoli dal 20 aprile in occasione della Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore che si celebra il 23 aprile, I racconti del libraio è un’esaltante dichiarazione d’amore scritta da un uomo che ha trascorso gli ultimi trentacinque anni a vendere libri. Dopo aver conseguito un dottorato in Storia dell’India e aver insegnato alla Hertfordshire University, a metà degli anni Ottanta Martin Latham decise di cambiare vita:
«Vi racconterò come tutto cominciò per me nel 1986. Da un appartamento in Battersea raggiungevo in bicicletta i luoghi in cui svolgevo vari incarichi part-time come docente di storia. Ero pagato soltanto per il tempo di contatto, vale a dire per l’insegnamento vero e proprio; non c’era alcun compenso per le ore spese a preparare le lezioni o per correggere gli elaborati […] Mentre pedalavo lungo King’s Road a Chelsea, notai una nuova libreria, Slaney & McKay, che cercava personale. Sally Slaney era un’ex addetta stampa della Collins Publishers e Lesley McKay gestiva già la miglior libreria di Sydney. Dopo un breve colloquio, mi assunsero: ero letteralmente inciampato nella mia vocazione.»
Dopo un periodo trascorso nel settore dei libri usati, Latham lavorò nelle filiali della Waterstones di Cheltenham e di Kensington, quartiere in cui capitava di incrociare David Hockney e Van Morrison, Mick Jagger e Madonna.
«Era un rifugio sicuro per molti, compresa la principessa Diana. Oggi sembra incredibile, ma entrando nella libreria Lady D lasciava le sue guardie del corpo ad aspettarla fuori, e nessuno la disturbava mai quando si aggirava da sola tra gli scaffali. Comprava soprattutto narrativa, ma anche testi di psicologia e spiritualità. La sua istruzione formale non era stata granché, perciò ai libri era arrivata per conto proprio.»
Nel 1990 gli venne affidata l’apertura della libreria Waterstones di Canterbury, altro luogo di memorabili incontri, come ci svela Latham stesso quando racconta del giorno in cui conobbe Umberto Eco:
«Chiesi al suo editore inglese se Eco avrebbe partecipato volentieri a un evento nella mia libreria di Canterbury. Mi risposero che non faceva mai quel genere di cose. Chiamai allora la sua casa editrice a Milano: furono gentili e mi dissero che gliel’avrebbero domandato. Lui rispose che ciò che davvero desiderava fare era lavorare in una libreria per un giorno. Lo fece, e vendette persino uno dei suoi libri a un cliente, senza rivelare la propria identità.»
Cosa sono i libri di consolazione, i commonplace books e i chapbooks
I racconti del libraio riservano sorprese, d’altronde, fin dal primo capitolo intitolato “Libri di consolazione”, una cavalcata entusiasmante alla riscoperta della storia del libro innanzi tutto come oggetto fisico. Una storia relativamente recente, perché prima dell’invenzione della stampa «era assai più frequente ascoltare qualcuno che leggeva a voce alta che non farlo per proprio conto».
Latham riporta alla luce i commonplace books, sorta di zibaldoni sui quali i lettori incollavano passi ritagliati da un libro, detestati dai bibliotecari perché impossibili da catalogare, o i già citati chapbooks, libretti che spaziavano dal giallo alla mitologia, dalle attività paranormali alle avventure sentimentali, dalla filosofia alla religione ma che, seppur stampati a milioni in tutto il mondo, «fino a non molto tempo fa venivano disprezzati dai bibliotecari e ignorati dagli accademici. Il che è strano, se si considera che molti mostri sacri della letteratura sono cresciuti con quelle storie».
Tra citazioni di lettori-scrittori di fama mondiale come Virginia Woolf e le sorelle Brontë, George Orwell e Vladimir Nabokov (che non scriveva per toccare i cuori o cambiare le menti, ma «per produrre quel piccolo sussulto nella spina dorsale del lettore artista»), Martin Latham ci introduce nel fantastico mondo dei libri di consolazione che, detto in altri termini, è la strenua e sottoscrivibile difesa del diritto di ogni lettore di leggere qualsiasi genere di libro, checché ne dicano gli accademici.
«Sovente la scoperta di un libro di consolazione è, come avviene quando ci si innamora, un’esperienza indimenticabile.»
Per Latham un libro di consolazione corrisponde a «qualcosa di forte, che vada al cuore del piacere di leggere: ci sono libri nella cui lettura c’è un elemento di dovere e altri che ti spingono a svegliarti presto al mattino per riprenderli in mano e a rallentare verso la fine per rinviare il momento del distacco».
L’avrai dunque capito: per leggere I racconti del libraio occorre armarsi di matita e molte, moltissime linguette adesive perché non volterai pagina senza evidenziare una frase, annotare un punto esclamativo a margine, citare una frase sui social. Peraltro è lo stesso autore a esortarci a contaminare i libri con le nostre annotazioni e «il nostro dna», ricordandoci che il desiderio di libri vergini e la paura della contaminazione da pagina stampata si incarnò, a metà dell’Ottocento, nella condanna dei “libri sconci”…
Nel capitolo tra i più gustosi intitolato “Segni di lettura”, Latham ci persuade infatti a scarabocchiare senza inibizioni ogni pagina degna di nota. Gli esilaranti esempi che ci riporta sono tratti dall’archivio dell’associazione Oxford University Marginalia e strappano benefiche risate, come il seguente: «Gli studenti di storia frequentatori di una biblioteca di Oxford hanno rotto ogni indugio. Le loro analisi dei volumi consultati comprendono un: “Seghe mentali!” e un: “Oh, gli anni Ottanta…”. E un commento a una storia della Guerra dei cento anni – “Gli scozzesi sono così arcigni e tediosi” – deve avere offeso uno scozzese, che ha replicato con un conciso, anche se meno raffinato: “Fottiti”».
Ma, riconosce Latham, «pochi raggiungono questo livello di disinibizione». A impedircelo, forse, «sono i dettami di un’autorità disincarnata, che vieta di “deturpare” i libri», anche se l’interdizione è relativamente moderna. Per secoli, i cosiddetti marginalia,
«le osservazioni scritte a margine di un volume furono considerate un segno di intelligenza, non di irriverenza, spia di una mente curiosa che non si limita alla fruizione passiva.»
Cionondimeno, sopravvive forte in tutti noi lettori ossessivi il rispetto sacrale per l’oggetto libro ben rappresentato dal collezionismo libraio, che Latham analizza ripercorrendo la biografia spesso avventurosa di molti collezionisti in un capitolo che inizia ai giorni nostri per andare indietro nei secoli:
«Qualche anno fa, vidi una bambina in fila al firmacopie di non ricordo quale autore in classifica. La piccola piangeva e la sua agitazione non faceva che crescere a mano a mano che si avvicinava al tavolo dello scrittore. Sua madre si chinò al suo fianco.
“Che succede, tesoro? Guarda, siamo quasi arrivate.”
“Non voglio che quello mi sporchi il libro!”»
C’è un eroismo silenzioso nella fede verso i libri
Secondo Latham non si tratta soltanto dell’impulso del collezionista che emerge nell’infanzia, «quando da bambini ci riempiamo le tasche di ciottoli e pietruzze colorate», ma ha a che fare con la consapevolezza dell’importanza dei vecchi libri per il progresso dell’umanità.
«Se riconosciamo alle grandi biblioteche del mondo un ruolo di sostegno alla civiltà, è giusto ricordare che dobbiamo quelle istituzioni più ai collezionisti privati che ai governi. Tuttavia, mentre la storia delle biblioteche è tramandata in volumi ponderosi, gli straordinari, eccentrici collezionisti che le fondarono, spesso a fini filantropici, giacciono dimenticati nelle loro tombe. C’è un eroismo silenzioso nella fede verso i libri.»
Persino i pirati contribuirono in qualche modo alla salvezza di libri fondamentali per l’evoluzione dell’umanità, come testimonia la straordinaria odissea del Codice Mendoza, reperto unico della cultura indigena redatto da uno scriba azteco nel Messico del XVI secolo. «Gli invasori spagnoli avevano sistematicamente distrutto i libri aztechi, come parte della loro strategia di annientamento di quell’antica civiltà. Il Codice, realizzato all’inizio del Cinquecento, cominciò la sua odissea quando il viceré del Messico, Antonio de Mendoza (1495-1552), lo inviò a Madrid come strumento di intelligence: una migliore comprensione della cultura azteca ne avrebbe permesso una più efficace cancellazione. Mendoza era un prepotente, perciò è un piacere riferire che il suo piano fallì. La nave che avrebbe dovuto portare il libro in Spagna fu intercettata nei Caraibi e catturata dai pirati, dando così inizio alle peregrinazioni del Codice, che nel corso dei secoli suscitò passioni degne dell’anello di Tolkien, irretendo con il suo fascino oscuro una serie di estimatori e, in un caso, determinandone la rovina.»
O, ancora, le vicissitudini di Venere e Adone, poema a tema erotico scritto da William Shakespeare di cui oggi sopravvivono pochissime copie. Fu Sir Charles Isham, pioniere del vegetarianesimo vissuto nell’Ottocento la cui notorietà è arrivata a noi per avere importato in Inghilterra la moda tedesca dei nani da giardino, a ritrovare il volume nella soffitta della villa di Lamport Hall, nel Northamptonshire, appartenuta all’antenato Thomas, che aveva acquistato il poema sebbene all’epoca fosse guardato con sospetto per i suoi influssi “corruttori”.
Altra storia esemplare è quella di Antonio Magliabechi, che donò i suoi 40.000 volumi e 10.000 manoscritti al granducato di Firenze, dando così origine alla preziosissima Biblioteca Centrale di Firenze. Magliabechi «era cresciuto analfabeta, come un monello di strada, finché i genitori non gli trovarono un impiego come garzone da un fruttivendolo, e a quel punto lui restò incantato dai misteriosi caratteri impressi sui fogli che il negoziante usava da incarto per la frutta. Un giorno il libraio della bottega accanto lo sorprese seduto a scrutarli, e si offrì di insegnargli a leggere. Nel giro di poco Antonio imparò il greco, il latino e l’ebraico, e acquisì la fama di sapientone, con una rapidità di lettura al limite della magia. Per metterlo alla prova, un tipografo gli prestò un manoscritto che gli era stato affidato per la stampa. Tempo dopo, fingendo di averlo perso, gli chiese di riscriverlo e Magliabechi lo riprodusse quasi parola per parola».
Insomma, potremmo andare avanti così all’infinito, come infinite sono le ragioni per amare la lettura, i libri e le librerie sostenute da Martin Latham e da noi condivise.
«Grazie a tutti voi, acquirenti e amanti dei libri: ogni giorno siete la prova che la vita non è solo guerre e bucato. Da giovane sognavo di diventare scrittore o accademico a tempo pieno, ma se fosse accaduto, mi sarei perso l’infinito arricchimento delle vostre sorprese, dei vostri racconti e del vostro calore.»