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Lorenzo Sandano racconta l’origine di un’ossessione gastro-musicale
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Redazione BookToBook
14 Dic 2020
Ci sono piatti che risuonano di gusti inestimabili, per Lorenzo Sandano, scoperte gustative di una decennale carriera da critico gastronomico, e ancor prima da patito della tavola, che dialogano con pancia, cuore, occhi e orecchie.
In questo memoir gastronomico Lorenzo Sandano ci racconta il cibo come nessuno ha fatto prima, con una penna sonora, passionale, che rende vivi sapori, odori, consistenze.
Lorenzo Sandano, il punk e la cucina
il testo che segue è stato scritto da Lorenzo Sandano
“F****lo qualsiasi tecnica, ciò che importa è l’anima di chi suona e non la qualità dello strumento.”
Così esordiva Giovanni Lindo Ferretti in un’intervista dell’88 per spiegare senza mezze misure la sua attitudine musicale, quella dei CCCP e di un genere ancora non etichettabile. Lungi da me associarmi al fondamentalismo estremista di quella poetica ribelle scagliata dai Fedeli alla Linea, ma trovo diverse analogie tra queste parole e il mio metro di abbinamento tra musica e cibo. Non solo perché con quel punk filosovietico ci sono cresciuto, ma soprattutto per l’impronta anti-stilistica e passionale che ha sempre direzionato i miei gesti, la mia metrica comunicativa, nel lavoro, nella vita e naturalmente nel tentare uno sviluppo narrativo tra le due forme espressive che più hanno impattato il mio “io”.
E manco a farlo apposta, la prima esposizione fisica e cartacea di questo binomio fuso insieme mi venne concesso proprio ondeggiando sulle note del punk, anche quelle del buon Lindo, tanto per rimarcare il valore della frase sopra citata. L’opportunità me la diede l’editrice Anna Morelli di Vandenberg Ed. – figura pluri-presente nella mia formazione professionale e nelle pagine del mio libro – che proprio in un numero tematico del magazine “Cook_inc.” propose uno sviluppo narrativo basato sull’intreccio tra cucina e musica. Io scelsi uno chef già molto settato sul tema: Massimo Viglietti, che oltre a ricordare fisicamente un mix estetico tra Ferretti e un Johnny Rotten in età avanzata (con tanto di cresta moicana imbianchita) era un fan spudorato di quel genere e della new-wave / post-punk degli 80’s nella sua massima portata.
Sarò sincero, la mia scelta c’era anche un tentativo di rivendicare (e auto-assolvere) il mio passato punkettone. Perché quando da pischelletto militavo molto attivamente nel movimento musicale che segnò la mia adolescenza, mi sentii quasi un traditore a distaccarmene così bruscamente per inseguire la passione del mondo gastronomico, a 17 anni. All’epoca mi appariva impossibile far convivere le due cose, ancor meno renderla comprensibile o giustificabile ai miei amici dell’epoca. Come spesso ripeto, mettermi “al pizzo” i solidini per provare ristoranti borghesotti non era affatto una scelta ben percepita dalla mia cerchia antagonista.
Io però una connessione plausibile e fluente la cercavo senza tregua: rintracciavo puntualmente delle ritmiche musicali aderenti ai vissuti culinari che pian piano continuavo ad assimilare. Dopo il via libera istituzionale e tangibile di “Cook_inc.”, in un articolo bello zeppo di riferimenti e connessioni musicali, trovai il coraggio e le sponde giuste per continuare a promuovere questa mia fissazione. Che, come molte delle cose più belle e stimolanti del vissuto, partì in modalità del tutto goliardica sui social network.
Il primo post che feci su Instagram in cui abbinavo una traccia a un momento mangereccio fu in un banalissimo pasto da mia nonna. E in tal senso, ripescandolo oggi per caso, decifro molto meglio le rotte emotive che mi hanno portato a inserire il capitolo Roots Radicals nel libro per BUR Rizzoli: il brano menzionato era proprio quello dei Rancid associato a un pranzo di Ferragosto.
Il pretesto della pubblicazione in pairing sui social fu determinante per diversi motivi: l’immediatezza della canzone legata a un’immagine appetibile; il coinciso richiamo narrativo in poche battute che spesso si rifaceva al genere scelto; la risposta incuriosita, istantanea e molto coinvolta dei follower. Se tutti questi fattori riuscivano a convivere e a sollecitare suggestioni affatto sterili, voleva dire che un fondo di significato quel mio tentativo doveva pur averlo, no? Il gioco prese una piega molto più seria del previsto, così come la frequenza dei post, la ricerca personale dell’abbinamento e anche il timbro che volevo generare in raccordo con il mezzo video sdoganato dalle stories di IG: oltre al supporto del singolo scatto, la fruizione combinata di video con la musica piazzata in sottofondo mi concesse ulteriore solidità nella divulgazione multisensoriale di questo squadernato incastro comunicativo.
Come lo impostavo? Mi ci volle un po’ a decifrare quello slancio istintivo in verità. C’era sicuramente il mio bagaglio culturale e musicale a farla da padrone, molto più variegato di quello adolescenziale e proiettato verso generi diametralmente opposti, ma dettati dal mio background. Poi, sicuramente, lo spartito che aveva accompagnato quella specifica istantanea gastronomica: la colonna sonora che scorreva in sottofondo, una conversazione buttata a caso nel mezzo della degustazione, un ritornello rimasto troppo tempo nelle orecchie nel tragitto in macchina e molto altro. A volte era il carattere, la fisionomia o l’approccio del cuciniere che avevo di fronte a suggerirmi il pezzo o l’artista predestinato per formulare il match. Altre ancora la musicalità intrinseca che mi si palesava al palato durante l’assaggio di una determinata sequenza di piatti o di un singolo boccone. Non ultima, quella più semplicistica forse, legata alle forme, alle geometrie e alla composizione visiva della portata più significativa dell’esperienza intrapresa a tavola.
L’origine per Lorenzo Sandano è stato un micro-format digitale
Il bello è che tutto ciò, a detta di molti, suonava bene insieme – passatemi il gioco di parole – e ci presi sempre più gusto. Tanto da riproporlo in maniera un po’ compulsiva (come ahimè di sovente faccio) nelle più disparate occasioni: durante alcune comparsate in radio, nel corso dei miei interventi TV, in un micro-format digitale nel quale, a fine concerto, intervistavo alcuni musicisti e cantati su loro appetiti culinari e la loro visione del rapporto da artista tra musica e alimentazione. Un circuito espressivo che, nella mia testa, prendeva sempre più spazio, ma che non mi appariva sviluppato concretamente nella sua interezza descrittiva.
Poi, fatalità, la chiamata di Francesca Bertazzoni per l’ipotesi del libro dei 100 piatti da assaggiare una volta nella vita e la sua (per me preziosissima) apertura mentale verso l’idea di snocciolare questa tematica proprio come filone portante del volume. Vinili, delivery ristorativi e spadellamenti domestici erano l’unica tris che mi teneva a galla nella solitudine alienante della quarantena, dunque per me è stato ancora più naturale e sentito l’impulso nel trovargli un collocamento verbalizzato nelle righe di questa mia inedita avventura editoriale.
Finalmente potevo spalmare tutto nero su bianco, ma senza il rischio di rinnegare l’insieme di vicissitudini e strumenti che mi avevano traghettato fin lì. Quindi ecco rientrare in maniera cruciale la parte fotografica/visiva: affidata a quel talento empatico/professionale di Alberto Blasetti, nell’immortalare un quadro musicale sartoriale per ogni scatto, piatto o memoria gustativa. Immancabili i piatti familiari, le radici casalinghe e tutta quella partitura sentimentale che mi aveva saziato i timpani sin da bimbetto. L’accento rap, underground, filo-punkeggiante saldato ai battiti della mia città, Roma. La commistione di generi, strumenti e sali-scendi melodici nel mio girovagare ramingo per le insegne italiane. Sfociando poi nella complessità meticcia e negli arrangiamenti cosmopoliti delle traversate internazionali, dove la componente onirica (dovuta al periodo storico) ha abilitato una serie di abbinamenti davvero ampi e trasversali.
Non ho ancora realizzato (e forse mai lo farò) se questo film che mi sono creato abbia un risvolto concreto come quello a cui ambivo. L’idea di condensare tutto in poche battute e in uno scatto abbinato, molto ristretto ed esplosivo come l’ascolto di un singolo brano è un azzardo tutt’altro che scontato da riportare a un lettore. La playlist che propongo – e che io in primis ho ascoltato consultando ogni singolo racconto – raggiunge molte delle percezioni che cercavo di evocare in questo progetto un po’ pazzo. Ma quando crollo nel dubbio della mia insicurezza, rileggo la citazione introduttiva del giovane Giovanni Lindo e trovo conforto. Perché anche se uno studio tecnico di abbinamento potrebbe latitare dai miei testi, sono convinto che l’anima e il tenore intimista che vi abbiamo inserito sia percepibile a vagonate. E non nego che in cuor mio spero si riveli anche un pretesto per far evolvere questa mia “ossessione” in un formato più articolato, complesso e approfondito.
Non smetterò mai di ribadirlo: mi auguro che ognuno si senta in condizione (in dovere) di scagionare i propri personalissimi abbinamenti musicali con i piatti scelti. Autorizzandosi a sognare con le papille tra le note che più lo rappresentano e a danzare col gusto tra i palcoscenici emozionali che meglio tratteggiano l’atto più puro, vitale e quotidiano delle nostre vite: mangiare.