Il regista che ha paura di Hollywood
Estratto dall’ultimo libro di Oriana Fallaci: L’Italia della dolce vita
La prima volta che incontrai Federico Fellini fu l’anno scorso a New York, poche ore prima che finisse in prigione come sospetto di appartenere a una banda di gangsters che voleva svaligiare Wall Street. Era un giorno di ottobre e Fellini era giunto in America con De Laurentiis per presentare Le notti di Cabiria. Abitavano insieme in un lussuoso albergo della East Side, vicino alla Quinta Avenue, dove avevano preso in affitto, al diciottesimo piano, un appartamento con la cucina onde prepararsi gli spaghetti alle vongole.
New York era ai loro piedi. Sulle colonne di Walter Winchell, Louis Sobol e Knickerbocker si parlava quotidianamente di loro, giornalisti molto autorevoli li lusinga- vano con interviste alla TV, avvicinarli era quasi difficile. Ma, come spesso accade quando si fa un colpo coi fiocchi, non feci nulla per sollecitare l’incontro che avvenne per caso. Un mio collega era stato chiamato da Dino De Laurentiis per tradurre un soggetto ed io ce lo accompagnai.
L’appuntamento era alle sei del pomeriggio. La stanza era quasi immersa nel buio e piena di gente. De Lauren- tiis spiegò che aspettava una telefonata molto importante da Rocky Marciano e pregò tutti di fare le presentazioni da soli. Stringemmo dunque moltissime mani e nessuno si curò di un’ombra grande e carnosa che sedeva accanto al telefono, beatamente dormendo. L’ombra era vestita di grigio, aveva le mani sulla pancia, la cravatta allentata e, sebbene si discutesse ad altissima voce, niente sembrava turbare il suo sonno angiolesco. Solo quando De Laurentiis si interrompeva per implorare «Attento al telefono» essa rispondeva con un grugnito. Ma non apriva gli occhi né si muoveva come se il minimo gesto bastasse a stremarla. Dormiva dunque o fingeva di dormire da quasi mezz’ora quando il telefono squillò. L’ombra si scosse. Pigramente abbatté la mano grassoccia sul ricevitore. Pigramente portò il ricevitore all’orecchio e miagolò: «Hallooo». De Laurentiis scattò in piedi, tutti tacquero. Udii con chiarezza, poi- ché ero vicino, che all’altro capo del filo qualcuno diceva: «Sono Rocky Marciano». «E io sono Manuel Fangio» rispose l’ombra con voce incolore. Poi tornò a sonnecchiare.
Lo svegliò un urlo. De Laurentiis aveva capito. «A matto, che hai combinato. Quello era Rocky Marciano.» L’ombra si alzò piano piano: diventando un bell’uomo. Stirò le braccia come se si alzasse in quel momento da letto, sbadigliò con piacere, posò le mani sui fianchi, poi aggrottò la fronte e all’improvviso emergendo dal suo incantato torpore osservò: «Già, ha detto proprio Rocky Marciano. Credevo scherzasse». Poi tornò ad acciambellarsi sulla poltrona e, assolutamente estraneo al dramma che si stava svolgendo, a De Laurentiis che sollecitava al centralino la comunicazione perduta, agli altri che lo guardavano con indignato stupore, mi disse: «Ciao. Come stai?». «Bene, grazie. E lei?» risposi un poco sorpresa: ignoravo chi fosse. «Ho male a un ginocchio» mi disse. «Cosa credi che sia?» Azzardai che si trattasse di artrite. «No, no. Son convinto che è la tristezza.»
«Hallo, hallo? Signorina, la prego.» supplicava De Laurentiis. L’uomo si massaggiava lento il ginocchio, senza guardare nessuno. «Oggi è il quattordicesimo anniversario del mio matrimonio ed è la prima volta che non lo passo insieme a mia moglie. Per questo mi fa male il ginocchio.» Sul faccione abbronzato, dalla gran bocca sensuale, il naso crudele, le guance cicciute, i suoi occhi luccicavano di una malinconia quasi cupa, senza dubbio sincera. «Hallo, hallo? Aaah Rocky? Caro Rocky. È stato uno sbaglio» dice- va trionfante De Laurentiis. L’uomo scosse le spalle, per niente compiaciuto o sorpreso: «Ero sicuro che avrebbe richiamato. Dio, il mio ginocchio. Andiamo a comprare un regalo a mia moglie». E, senza aspettare il permesso, mi trascinò in ascensore. «Dino è troppo attivo. Conosci un negozio dove si vende la roba da donna?» Lo portai in un negozio dove si vende la roba da donna. Il suo modo di comportarsi era così stravagante che non avevo neppure il coraggio, ormai, di domandargli chi fosse. Né il suo volto mi ricordava qualcuno. Non sono fisionomista, lo ammetto, malgrado il mestiere.
«Se le comprassi un cappello?» diceva mettendomi in te- sta un cappello. È press’a poco come te: di corpo e statura. «È anche bionda e ha la faccia rotonda. Girati. No, le sta male. Se le comprassi un paio di babbucce?» Mi obbligò a togliermi le scarpe, a calzar le babbucce. Ma nemmeno queste andavano bene. «Capisci, lei si veste sempre severa. Io la vorrei più spiritosa, più sexy. Ecco, una camicia da notte.» E agguantò una camicia da notte, con un gran cuore disegnato davanti: «Le piacerà?». «No,» risposi «è orribile.» «Allora queste.» E prima che glielo potessi impedire, acquistò un paio di mutandine. Erano le mutandine più idiote e scandalose che avessi mai visto: di tulle giallo con le stelline di Strass sul davanti. «Le piaceranno» dichiarò agguantando felice il pacchetto e strizzando l’occhio a una commessa con tanta roba di dietro. «Torniamo da Dino.» Entrammo di nuovo in albergo, ma, al momento di salire in ascensore, ci ripensò. «Voglio farle un telegramma. Credi che le farà piacere il mio telegramma?» Mezz’ora dopo il cestino era pieno di fogli stracciati. Non riusciva a trovare la formula giusta. Qualsiasi espressione d’amore gli sembrava ridicola. Mi porse la penna: «Scrivilo tu». Allora sbottai. «Senta» gli dissi. «Io non so chi sia lei, né chi sia questa moglie. Mi ha portato via dai miei amici, mi ha trascinato a comprare un paio di mutande schifose. Ora vuole che scriva i suoi telegrammi d’amore. Mi dica almeno chi è. E mi chieda chi sono.» Non ne sembrò punto offeso. «lo mi chiamo Federico Fellini. E tu?»