Sharon Stone ha scritto un libro. Ma al di là delle speculazioni che porta con sé questo genere di affermazione, non si tratta di un libro di pettegolezzi, anzi.
Il bello di vivere due volte è un cammino di rinascita, ostinato e pieno d’amore che parte nel 2001, quando una delle attrici più celebri al mondo fu colpita da un grave ictus cerebrale che, oltre alla salute, le distrusse anche carriera, famiglia, patrimonio finanziario e fama internazionale.
«Ha un’emorragia cerebrale. Subito dopo è diventato tutto bianco. Una specie di tormenta di neve straordinaria e luminosa mi ha sollevato e sradicato dal mio corpo per gettarmi in un altro magnifico e fatto di… consapevolezza?». Da quella luce emergono volti familiari, calorosi e rassicuranti, circondati dall’amore. È tutto così mistico. Poi una botta tremenda – «Come un calcio di un mulo in pieno petto» – la riporta nella stanza gelida del pronto soccorso. «Avevo fatto una scelta» scrive Sharon Stone. Aveva scelto di continuare a vivere.
Quello di Sharon Stone è un libro per chi si sente ferito e per chi si reputa un sopravvissuto
Sharon Stone non risparmia niente e nessuno nel suo libro, a partire da se stessa. Anche se non si tratta di luogo per rese dei conti c’è tutto: da una prima fase fatta di celebrità mondiale a una seconda fase di marginalizzazione, dalla tragicità di un padre violento al perdono di una madre che ha permesso tanto, forse troppo, fino a questione ormai tristemente note legate ad abusi sul posto di lavoro.
Attrice ma anche attivista per i diritti umani, artista, madre, figlia, sorella e scrittrice Sharon Stone, che oggi vive a Los Angeles con la sua famiglia, è apprezzata anche per le battaglie compiute per sostenere le proprie idee. In questo libro c’è la forza della resilienza delle donne. È un bilancio di vita e una chiamata alle armi e dimostra che non è mai troppo tardi per alzare la voce e farsi sentire.
Leggi un estratto dal libro di Sharon Stone
Quando mi comunicarono che avevo ottenuto la parte in Basic Instinct, mi chiesero di incontrare Paul Verhoeven e altre persone della produzione. Ero così nervosa ed eccitata che quasi non sentivo cosa mi dicevano al telefono.
Incontrai Paul negli uffici della produzione, a Hollywood, poi salutai qualcun altro mentre mi accompagnavano a firmare le scartoffie necessarie. Così conobbi il produttore esecutivo nel suo ufficio caotico, un tipo di una certa età, dai modi equivoci. Chiuse la porta, si mise a sedere e mi disse: «Tu non sei la nostra prima scelta per questo film, Karen, no, e nemmeno la seconda o la terza, sei la tredicesima».
Ha continuato a chiamarmi Karen per tutto il periodo delle riprese e della postproduzione del film.
Quando lasciai quell’ufficio ero così stravolta che entrai in macchina, accesi lo stereo con la musica rap a tutto volume, misi la retromarcia e andai addosso a un camion parcheggiato un metro dietro di me.
Alla cena del ballo del governatore che segue la cerimonia degli Oscar, a cui ho partecipato per la prima volta dopo Basic Instinct, mi sedetti proprio accanto a quel produttore esecutivo e in quell’occasione non mi chiamò Karen.
Per interpretare quel ruolo avevo escogitato una specie di tattica di sopravvivenza che mi permetteva di resistere alle concomitanti pressioni di ogni genere su di me e sul film.
Tutti gli stratagemmi che ho adottato per sparire in me stessa mi hanno consentito di sparire anche nel personaggio, forte e vellutato come il foulard di seta bianca che indossava.
Alla proiezione mi resi conto che potevo non solo apparire bellissima grazie ai migliori talenti di Hollywood che mettevano in luce i miei pregi e celavano i difetti, ma anche riuscire a dissimulare con altrettanta efficacia le mie più profonde vulnerabilità, i miei punti deboli, la mia parte fragile e tenera.
Non avevo intenzione di diventare Catherine nella realtà, ma avevo di certo imparato a mostrarmi meno debole, meno disponibile a essere mangiata viva.
Prendevo ancora alcune decisioni in base alle esperienze e alle cicatrici di una bimba di otto anni, alle ferite profonde e ai legami spezzati che non ero riuscita a rimettere a posto.
Prima di diventare famosa non facevo che dissimulare, e mi veniva pure bene. Ma adesso, per la prima volta, sentivo il bisogno di imparare a capire cose nuove. Chiedevo al mondo di cambiare e volevo ottenere il permesso di dire perché.
Pretendevo di essere vista e rispettata. Volevo farmi conoscere.
Clarence, mio nonno materno, morì quando avevo circa quattordici anni. Di infarto, se non ricordo male. Era in macchina e faceva troppo caldo, dissero.
Solo adesso mi rendo conto di quanto sia stato strano il suo funerale, il primo a cui abbia partecipato, con me e mia sorella a sperare che fosse davvero morto. Ci avvicinammo alla salma, solo per controllare ed esserne sicure. Se chiudo gli occhi rivedo ancora la sala piena di sedie di legno pieghevoli vuote, e la gente in piedi in fondo alla stanza, a gruppetti, con la testa china, a parlare sottovoce. A quel funerale nessuno si mise a sedere e nessuno fece un discorso in memoria.
Kelly e io guardammo dentro la bara. «È morto?» mi chiese.
«Oddio, non lo so.»
«Toccalo.»
«Perché io?»
«Perché sei la più grande.»
Allora lo toccai e, come travolta da una valanga, fui investita da una bizzarra soddisfazione nel realizzare che era defunto. Guardai Kelly negli occhi e lei capì, aveva undici anni e finalmente era tutto finito.