Fellini era una persona il cui realismo era superiore persino ai suoi sogni.
Sogni che lui ci ha lasciato sotto forma di film, un’affascinante eredità.
Fellini diceva che l’assunto principale della sua vita era: «I sogni sono l’unica realtà». E si chiedeva: «L’inconscio è mai stato usato completamente? Si finisce mai di sognare?».
Il libro di Charlotte Chandler Io, Federico Fellini è tutte le cose che Federico Fellini le confidò lungo l’intero arco del loro sodalizio, durato quattordici anni, dalla primavera del 1980, a Roma, fino a poche settimane prima della sua morte, avvenuta nell’autunno del 1993.
Io, Federico Fellini è stato più parlato che scritto.
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«Ho una sola vita, ed è quella che ti ho raccontato. Questo è il mio testamento finale, perché non ho altre parole da aggiungere.»
«Dovresti avere una montagna di parole mie. Se vorrò sapere qualcosa sui miei sentimenti in una certa epoca, ti consulterò. Per me è più facile ripercorrere i fatti della mia esistenza che cercare di ricordare come mi sentivo in un certo frangente. Non ti capita mai di ricordare la tua vita cronologicamente, com’è successa la tal cosa, cos’aveva un’importanza maggiore o persino cosa sembrava essere più importante. Non abbiamo il controllo dei nostri ricordi. Non è possibile possederli totalmente. Sono loro che posseggono te.»
«Tu sei una buona ascoltatrice e a volte, nel sentire ciò che ti dico, imparo qualcosa su di me. Non ti ho mai mentito di proposito perché tu ti fidi di me. Non posso mentire a una persona che crede a tutto quanto le dico. Ovviamente posso mentire a me stesso, e lo faccio spesso.»
Il più straordinario fra i personaggi dei suoi film solo raramente è apparso sullo schermo e tuttavia era sempre presente: Fellini stesso.
Era lui la vera stella dei suoi film.
Nei frangenti della vita era un uomo dotato di carisma. Charlotte Chandler lo ricorda generoso e premuroso, mentre la ringraziava per avergli fatto compagnia durante un pranzo o per aver trascorso il suo tempo con lui, lui che tanti regali aveva fatto a lei.
Le diceva che un essere umano vive fino a quando esistono persone che l’hanno conosciuto e che gli hanno voluto bene e Chandler credeva davvero fosse vero.
Tuttavia era molto più preoccupato per l’immortalità dei suoi film che per la propria mortalità.
Federico Fellini nel ricordo di Billy Wilder
Ricordo che stavo tornando dal funerale di Lubitsch. Ero con Willy Wyler. Era sconvolgente pensare a un mondo senza Lubitsch. Dissi: «Addio Lubitsch». E lui di rimando: «Peggio ancora. Addio film di Lubitsch».
E adesso non avremo più film di Fellini.
Ho conosciuto i suoi film prima di conoscere lui.
Fu La strada che me lo fece scoprire come regista. Fellini era balzato di colpo alla notorietà grazie a quel film, a quella moglie così brava. Soltanto dopo La dolce vita l’ho scoperto come persona. Ero a Roma e lui mi aveva portato a pranzo in un ristorante a cinque minuti da Cinecittà. Sui tavoli razzolavano alcune galline.
«Vedi» disse lui indicandomele, «qui è tutto genuino.»
Gli risposi che ero disposto a credergli sulla parola. Sul tavolo c’erano alcune uova. «Senti» disse lui offrendomene uno. «È ancora caldo.»
Non ordinai una omelette.
Lo rividi di nuovo dopo Otto e mezzo. Tornammo nello stesso ristorante.
C’erano ancora le galline, ma non credo che fossero le stesse.
Era molto interessato al cibo. Era molto italiano. Mi piaceva ascoltarlo parlare di donne, sesso, avventure amorose, passioni. Sapeva essere divertentissimo. Gli piaceva stupire le persone.
I nostri discorsi erano sempre molto stimolanti: ci rilanciavamo l’un l’altro la palla, saltando da un argomento all’altro. Eravamo come una coppia di capitani di lungo corso. Io sono un vecchio lupo di mare, ho conosciuto mari in tempesta, e lui pure.
Avevamo un retroterra simile. Lui veniva dal giornalismo, e anch’io.
Entrambi abbiamo cominciato le rispettive carriere cinematografiche intervistando divi del cinema e registi. A me è capitato di lavorare nello stesso giornale con Erich Maria Remarque. Fellini e io siamo diventati registi per impedire che altri stravolgessero le nostre sceneggiature, proprio come ha fatto Preston Sturges. La dolce vita non parla solo di Roma, così come Viale del tramonto non parla solo di Hollywood.
Fellini aveva collaboratori fissi, come me. Leigh Brackett mi è stata a fianco per quindici anni, I.A.L. Diamond per venticinque. Bisogna saper ascoltare gli altri e valutare quel che ti dicono, anche se poi non ne terrai conto. Devi avere qualcuno da rispettare, ma la cosa migliore è che non sia come te, perché desideri sentirti suggerire idee diverse, altrimenti tanto vale che parli con te stesso. Ci dev’essere un tentativo di reciproca persuasione.
Federico era molto interessato all’arte, come me, e aveva un occhio d’artista. La differenza fra noi due sta nel fatto che lui era bravo a disegnare, mentre io non so né disegnare né dipingere né scolpire, so solo apprezzare.
Un’altra differenza è che io ho sempre preferito utilizzare attori professionisti, mentre lui amava servirsi di persone che non avessero mai recitato; a me piace filmare lo stretto necessario, perché più riprese fai più diminuisce la tensione degli attori, mentre a lui piaceva poter scegliere, così girava anche sequenze che non avrebbe mai usato.
La cinepresa di Fellini è sempre sistemata al posto giusto, esattamente dove dev’essere per ogni inquadratura. Cosa ancora più importante, non ne avverti la presenza, non senti l’invadenza del regista. Non ci sono mai angolature che distraggano, Fellini segue sempre la storia.
Io vado al cinema per divertirmi, come faceva lui, e non mi piace sentire la presenza del regista in quello che vedo.
Il film di Fellini che preferisco è lo splendido Le notti di Cabiria.
Se Fellini avesse lavorato nel mondo di lingua inglese, anziché in Italia, sarebbe diventato molto più famoso.
Anche quando falliva era grande. È stupefacente vedere quante volte i suoi film non hanno avuto successo e lui ha egualmente avuto la possibilità di girare ancora. Questo è il vantaggio di lavorare in Italia anziché in America.
Quello che né lui né io abbiamo mai avuto è l’abbondanza di cui gode Spielberg. Immaginate che cosa vorrebbe dire girare film che guadagnano così tanti soldi da permetterti di filmare quello che più ti piace!
Ovunque andassimo, la gente ci chiedeva sempre la stessa cosa.
«Signor Wilder, quando girerà il suo prossimo film?» «Signor Fellini, quando girerà il suo prossimo film?» E noi potevamo solo rispondere la stessa cosa: «Appena potrò… e se me lo lasceranno fare».
Un film di Fellini lo si riconosce subito perché ha uno stile personale.
Ci sono cose che non si possono imparare. Sono una dote innata.
Nella vita di tutti i giorni, quando eri assieme a Federico, sapevi che stavi con lui e che non poteva trattarsi di un altro. Lui aveva una propria orbita.
Quando qualcuno come Fellini muore, non puoi cavartela con frasi di circostanza, perché non ne esistono. Quel che lui faceva aveva qualcosa di personale, di tutto suo. Lo si può studiare, analizzare, copiare e forse qualcuno può anche riuscire a far sì che la gente dica: «Questo regista ricorda Fellini», ma potrà essere solo simile a Fellini.
Quando non puoi copiare qualcosa, questa è la vera arte.