Una delle ragioni per cui il graphic novel è ormai finalmente riconosciuto come un genere letterario al pari di altre e più classiche forme narrative è, per così dire, fattuale: negli anni e nei decenni la letteratura a fumetti ha generato veri e propri capolavori, romanzi grafici divenuti opere cult per generazioni di appassionati lettori e lettrici di ogni età, long seller che non invecchiano mai. Here di Richard McGuire, in Italia edito da Rizzoli Lizard nel 2015 con il titolo Qui e la traduzione di Steve Piccolo, è senz’altro tra questi, un’icona dell’arte del romanzo per immagini nonché fonte di ispirazione per generazioni di artisti di varia formazione e caratura.
Tanto che a lasciarsi ispirare dal tratto magistrale di McGuire è stato un altro maestro indiscusso dell’arte visiva, il regista Robert Zemeckis, che con il suo nuovo film, nelle sale italiane dal 9 gennaio, intitolato proprio Here, propone la sua personale trasposizione sul grande schermo del genio di McGuire. Il cast non lascia dubbi sull’importanza della pellicola per Zemeckis che, per girare le scene di Here, ha voluto riunire attorno a sé una squadra d’eccezione, la stessa che contribuì a fare di un altro film del regista statunitense, Forrest Gump, un pezzo della storia della filmografia mondiale, vincitore di sei premi Oscar. Oltre infatti allo sceneggiatore Eric Roth, Zemeckis ha richiamato sul set l’indimenticabile coppia di attori formata da Tom Hanks e Robin Wright, protagonisti di Forrest Gump e di nuovo in primo piano oggi in Here.
Richard McGuire, che collabora regolarmente con il “New Yorker” e le cui opere sono apparse sulle più importanti testate mondiali tra cui il “New York Times”, “McSweeney’s”, “Le Monde” e “Libération”, pubblicò per la prima volta Here nel 1989, come ministoria di sole sei pagine sulla rivista “Raw”, prima di raccoglierla in un volume, uscito nel 2014 negli Stati Uniti e nel 2015 in Italia, che aprì al fumetto nuove e prima di allora inimmaginate vie di espressione artistica.
Here è un racconto di attimi
Qui è la storia di un luogo e di ciò che vi è accaduto nel corso di centinaia di migliaia di anni; un unico racconto composto di attimi che si avvicendano nel tempo e che narrano di epoche e vite diverse – dalla preistoria coi dinosauri lungo i secoli, dai nativi americani agli schiavi che costruiscono le ville coloniali, dalla Grande depressione fino al nostro Ventunesimo secolo –, che disegnano il passare delle stagioni e l’avvicendarsi delle epoche nella storia dell’umanità dalla prospettiva fissa dell’angolo del salotto di una casa costruita nel 1902, nello stesso luogo che negli anni, nei decenni e nei secoli cambia e si trasforma insieme a coloro che lo abitano. La nascita, la morte, le famiglie che si creano, l’edificarsi delle città laddove c’erano le paludi, l’amore e la speranza, i momenti fuggenti di gioia e di dolore, tutte finestre sul passato e sul presente a rappresentare le nostre case come ricettacolo della memoria collettiva.
Here: non solo cinema, ma anche intelligenza artificiale
L’intero spettro delle passioni e delle vicende umane prende forma e sfuma sotto gli occhi dell’artista McGuire e ora dietro la telecamera di Zemeckis, che per narrare il trascorrere del tempo, oltre al trucco e alle protesi ha fatto ricorso, non senza dibattiti e polemiche, all’uso del de-aging digitale, uno strumento di intelligenza artificiale messo a punto dallo studio di produzione americano VFX Metaphysic per ringiovanire Hanks e Wright nei panni di Richard e Margaret (e altri personaggi), il cui arco di vita, che va dalla scuola secondaria alla vecchiaia, è al centro del film. La produzione ha inoltre utilizzato immagini d’archivio di Hanks e di Wright, recuperando vecchie interviste fatte quando avevano 18, 19 e 21 anni. «L’intelligenza artificiale ci ha ridato l’innocenza dello sguardo e della pelle di quando eravamo giovani. E ci ha liberato del mento cadente», dice con una battuta Wright al “New York Times”.
Come ha scritto “Hollywood Reporter”, Here è più «all’avanguardia e convincente rispetto al de-aging di The Irishman di Martin Scorsese di cinque anni fa, consentendo una maggiore adattabilità ed espressività facciale – sebbene la fisicità dei corpi degli attori non mostri sempre una corrispondenza perfetta», intendendo così non tralasciare le perplessità e la preoccupazione per l’uso di certi strumenti di intelligenza artificiale, «in particolare in un momento in cui molti di noi temono che la recitazione stia percorrendo una strada digitale sempre più disumanizzante».
Al di là della preoccupazione sulle possibili derive dell’AI, resta il fatto che il film di Robert Zemeckis celebra il felice connubio tra due arti, il cinema e la letteratura a fumetti, in grado di aprire a sua volta nuove strade alla creatività umana.
Al “New York Times” Richard McGuire ha raccontato che soltanto alla fine degli anni Novanta, dieci anni dopo la pubblicazione della ministoria sulla rivista “Raw”, decise di ampliare la narrazione e farne un libro. Che però non consegnò per altri quattordici anni.
«Avvertivo una certa frustrazione, continuavo a metter da parte il progetto per dedicarmi ad altri lavori. Dubitavo che valesse la pena ampliarlo e trovai la motivazione soltanto nel momento in cui cominciai a ripensarlo come una musica. Appesi le tavole della ministoria alle pareti del mio studio e iniziai a osservarle come se fossero una partitura musicale, e così cominciai un taglia e cuci finché la narrazione non si trasformò in una specie di fuga, con diverse temi e melodie che si ripetevano».
Il film di Zemeckis si spinge oltre la narrazione fedele del graphic novel (fino a comprendere la pandemia), come dice lo stesso McGuire al “New York Times”, ma alla domanda se gli è piaciuto il film, risponde di sì: «Ho apprezzato il lavoro che ha fatto Roth per trasformarlo in un film. È al contempo divertente e commovente». E sul perché non abbia voluto partecipare alla sceneggiatura, Richiard McGuire spiega: «Mi è stato chiesto di offrire la mia consulenza ma ho declinato. Ho pensato che sapessero cosa stavano facendo. E poi volevo godermi l’esperienza di vedere il film come un semplice spettatore».