“Ho paura di fare il poeta”: un libro per ricordare Fabrizio De André
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Redazione BookToBook
10 Gen 2024
Certe vite, come certi amori, non si scordano mai, e quella di Fabrizio De André è ancora oggi, a venticinque anni dalla morte, una vita indimenticata. Anche e soprattutto dalle più giovani generazioni, anche da quanti non erano forse neppure ancora nati quando l’11 gennaio del 1999 la malattia, diagnosticata un anno prima, se lo portò via a soli cinquantotto anni. Eppure l’opera, il pensiero, il genio di Fabrizio De André sopravvivono immutati, sembrano non avere età ma piuttosto immortalità, di fronte allo scorrere del tempo implacabile nel contare gli anni, il vuoto, la perdita e il sentimento di assenza che le grandi vite sono solite lasciarci in eredità in molti di noi, in centinaia, migliaia di persone che ancora cantano a memoria le canzoni di Faber. Succede così, è normale nella straordinarietà di certe vite indimenticabili.
Un viaggio intimo dentro una delle menti più lucide, scomode e amate della musica italiana: quella di Fabrizio De André
Fabrizio De André è stato un artista ed è un uomo indimenticato, prova ne sia, se ce ne fosse bisogno, l’interesse mai sopito verso la sua opera. Una sorta di fonte inesauribile, una risorsa rinnovabile, una sorgente incontaminata di impulsi creativi e di riflessioni d’impegno sociale, viene da pensare a sfogliare le 350 pagine di Fabrizio De André. Ho paura di fare il poeta, che Rizzoli Lizard porta in libreria il 16 gennaio. Gli autori del volume, accuratissimo, sono Claudio Sassi, tra i massimi esperti della discografia di De André, e Walter Pistarini, fondatore nel 1999 di viadelcampo.com, che per molti anni è stato il punto di incontro per i fan del cantautore genovese, nato il 18 febbraio del 1940.
Attingendo a oltre millecinquecento interviste, articoli di giornale, libri e testi delle canzoni, i due curatori hanno raccolto la voce e le riflessioni di De André lungo quarant’anni di carriera e, attraverso le parole e i ricordi anche dei musicisti, dei collaboratori, delle persone che lo hanno conosciuto, che hanno trascorso con lui parte del percorso artistico, che lo hanno amato – a partire ovviamente dalla moglie, Dori Ghezzi, che si occupa della Fondazione Fabrizio De André Onlus – ci propongono un racconto diretto, lineare, schietto dentro la vita dell’uomo che fu, ancor prima e oltre l’artista che è stato Fabrizio De André.
Grazie alla scelta di riproporre le parole di Faber senza alcun artificio narrativo se non la suddivisione dei capitoli per temi, i lettori possono ascoltare, riascoltare, riscoprire o scoprire per la prima volta le sue idee sul mondo, sulla vita e sulla morte, il suo intendere la musica, la poesia, se stesso. Fabrizio diceva che, a tutte le altre definizioni, preferiva quella di “paroliere”, come ci riportano Sassi e Pistarini che raccontano come, sul finire degli anni Sessanta, alcuni giornalisti gli attribuirono l’etichetta di filosofo della canzone. Fabrizio rispose a tono: «No, non sono un filosofo. Non ne ho la preparazione necessaria […] Mi sento paroliere, ecco».
Tra le tematiche di De André ricorre l’attenzione agli ultimi
Ecco allora che Fabrizio De André. Ho paura di fare il poeta si nutre delle parole di Faber per ripercorrerne la vita in trentacinque capitoli che s’addentrano nelle tematiche a lui più care e che i fan più fedeli riconosceranno senz’altro. Tematiche che corrispondono alle materie prime con cui Faber ha scolpito le sue canzoni e i suoi album notoriamente tematici. Come l’attenzione agli “ultimi”, alle persone che vivono ai margini della società, uno dei temi più cari a Fabrizio, che accese un faro, scrivono i curatori, su questa umanità dolente. «I perdenti sono le persone che più mi affascinano», spiegava il cantautore. «Per me dietro ogni barbone si nasconde un eroe».
Così come la sua contrarietà alla guerra, un altro dei temi cui ha dedicato più attenzione, «disseminata in ben dieci canzoni», notano Sassi e Pistarini; «“La guerra di Piero” è la più famosa canzone antimilitarista, finita anche nelle antologie di poesia italiana».
E poi il tema eterno ma mai scontato e banale dell’amore, cantato nelle sue molteplici sfumature, «come amore dei sensi, amore sognato, amore tradito, amore pagato, amore assoluto», spiegano gli autori del volume. «L’amore come condizione del nostro essere è analizzato nella complessità e nella problematicità della sua essenza, senza mai tralasciare il carattere propriamente umano». E da qui alla centralità delle figure femminili nell’universo poetico deandreiano: «Le parole che Fabrizio dedica alle donne nel brano “Le passanti” sono meravigliose: una breve rassegna di figure femminili trattate con poesia e rispetto, come solo lui sapeva fare, sia che fossero giovani donne, sante, eroine o prostitute, tutte meritano la dignità di essere considerate regine, perché rendono la vita degli uomini gioiosa, perché esse stesse sono gioia, sono vita, sono da pensare sempre con amore e mai con possesso e violenza. La storia di Maggie», ricordano Sassi e Pistarini, «“uccisa in un bordello dalle carezze di un animale”, è una poco velata storia di femminicidio, un argomento purtroppo molto attuale, che trova il suo fondamento nella violenza misogina e sessista dell’uomo radicata nelle nostre società». Storie più che mai toccanti nella loro attualità, come lo sono la libertà e la giustizia, di cui De André ci ha lasciato parole indelebili, come i versi della canzone “Il testamento di Tito” nell’album La buona novella, «un’idea», spiegò Fabrizio, «di come potrebbero cambiare le leggi se fossero scritte da chi il potere non ce l’ha».
Le parole di De André e il racconto degli inizi
Il volume edito da Rizzoli Lizard è dunque così un viaggio intimo in una delle menti più lucide, scomode e amate della musica italiana, un ritratto che si compone anche di aneddoti e curiosità, come la passione di Fabrizio per l’astrologia, i tarocchi e l’esoterismo. Ricorda Mauro Pagani: «La nostra affinità? Questione di quadro astrale», racconta l’ex leader della Pfm con cui De André collaborò a lungo. «Il segno zodiacale, l’Acquario, era una delle cose che avevamo in comune. Fabrizio aveva una gran passione per l’astrologia. Anzi, se doveva intraprendere con qualcuno un lavoro appena più che saltuario, per prima cosa gli chiedeva la data di nascita e l’ora». L’uso dei tarocchi fu decisivo per l’uscita dell’album Le nuvole: «dovevamo registrarlo nell’86-87», ricorda ancora Pagani, «ma lui fece le carte e disse: “No, non va bene, dobbiamo registrarlo nell’88-89”. E così facemmo. Perché gli astri dicevano che avrebbe avuto molta fortuna e in effetti così è stato».
E poi c’è la passione per il calcio e per il Genoa; «sui suoi diari», spiegano Sassi e Pistarini, «annota classifiche, gol fatti e gol subiti, conteggio degli scontri diretti, formazioni reali e formazioni ideali, quote salvezza e tanto altro. Anche le sue riflessioni sul calcio sono speciali, hanno il suo marchio inconfondibile. Pone a se stesso la domanda: “Che cos’è il tifo?”, alla quale risponde scrivendo che è “una sorta di fede laica, è il bisogno di schierarsi a favore di un partito, simbolizzato da immagini, da un colore, ma che si pretende essere sostenuto da una tradizione e da una cultura diverse da quelle degli altri: il tifo nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi”».
A illuminare il percorso artistico e biografico proposto dagli autori c’è anche e ovviamente, nella prima parte del volume, il racconto degli inizi, di come a otto anni, «come si conviene a un rampollo di buona famiglia», raccontava Fabrizio, «ho cominciato a studiare violino. Veniva un maestro a casa mia, a darmi lezioni. Ma a me il violino non piaceva, soprattutto perché mi faceva male. Ho le clavicole sporgenti io, e l’appoggiarlo mi dava fastidio».
Finito il liceo classico «mi sono sentito in crisi», sono ancora le parole di Fabrizio; «non una crisi fatta di quattrini, ma di insoddisfazione. Mi sono iscritto all’università, prima a Legge, poi a Medicina. Scrivere poesie mi era sempre piaciuto, come capita un po’ a tutti quelli che frequentano la scuola e trovano “fine” mettersi a scrivere versi. Tutti, lo dice anche Croce in un suo scritto, ci sentiamo un po’ poeti, almeno in età giovanile. Ad un certo punto mi sono accorto che scrivere queste poesie non mi bastava più. Oltretutto, non mi ritenevo, né mi ritengo tuttora, un poeta, nel senso letterario del termine, e quindi, visto che sapevo suonare anche la chitarra, ho deciso di mettere in musica queste mie “sensazioni”». Le suonava per gli amici, nessuna ambizione discografica. «Poi, quasi per caso, decido di incidere il mio primo disco. Fu un successo, un grosso successo, che venne inaspettato e improvviso, dato che il disco non fu pubblicizzato. Fu una sensazione meravigliosa quella di sentirsi capito da tanta gente e decisi di continuare». Nel 1965, mentre ancora frequenta l’università, Fabrizio scrive “Marinella”; «ricevetti un semestre di diritti Siae di seicentomila lire, saranno circa sessanta milioni oggi. Allora ho salutato tutti i professori, e mi sono dedicato solamente alla canzone».
Ed è così, attraverso la sua voce che risuona ancora inconfondibile e potente, che riscopriamo la sua forza e le sue fragilità, la dipendenza dall’alcol, i centodiciotto giorni che Fabrizio e Dori trascorsero sequestrati nella loro amata Sardegna, la ricerca musicale a cui si dedicò per tutta la vita, i progetti pensati e mai realizzati, le collaborazioni con personalità della cultura e con i più importanti artisti della scena letteraria e musicale italiana, l’autocritica e le autocensure, la paura del pubblico che lo accompagnò per tutta la vita nonostante i tour di concerti che, partiti dalla Bussola il 16 marzo 1975, lo resero famoso in Italia e all’estero, tournée in cui lo accompagnarono grandi musicisti e in cui, come per Anime Salve, l’ultimo suo album, volle al suo fianco i figli Cristiano e Luisa Vittoria.
Fabrizio De André. Ho paura di fare il poeta è il ritratto di un uomo complesso e profondo, che ha fatto della sua arte un modo di esprimere il proprio impegno sociale, nel tentativo di dare voce agli ultimi e mostrare come ci sia «ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell’errore».
Che risuonino, allora, le parole di Fernanda Pivano, tra le amicizie più significative e durevoli di Fabrizio, che la contattò per la prima volta nel 1971 per farle sentire qualche brano del nuovo disco che stava preparando ispirandosi all’Antologia di Spoon River di Edgard Lee Masters. Il 26 luglio 1997 Fernanda consegna a Fabrizio il Premio Lunezia per il valore letterario del testo di “Smisurata preghiera”. E lì, presentando Fabrizio, l’amica Fernanda lo definì, a futura indelebile memoria, «il più grande poeta in assoluto degli ultimi cinquant’anni in Italia… quel dolce menestrello che per primo ci ha fatto le sue proposte di pacifismo, di non violenza, di anticonformismo. Sempre di più sarebbe necessario che, invece di dire che Fabrizio è il Bob Dylan italiano, si dicesse che Bob Dylan è il Fabrizio americano».