Perché la dipendenza materna crea pessimi cittadini
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Redazione BookToBook
01 Mar 2021
Che cosa hanno in comune due fenomeni apparentemente distanti come l’urgenza di riaprire le scuole in tempi di pandemia e l’invasione di Capitol Hill da parte dei sostenitori di Donald Trump? Poco o nulla, verrebbe da dire, a meno di non riflettere sul legame che invece esiste tra l’educazione dei nostri figli come cittadini maturi e responsabili e il rispetto delle regole democratiche a difesa della libertà, contro ogni forma di tirannia.
A proporre una riflessione di questo tipo è il libro Troppa famiglia fa male. Come la dipendenza materna crea adulti bambini (e pessimi cittadini), scritto dalla psicoanalista e saggista Laura Pigozzi, che analizza la società contemporanea sotto la lente dell’educazione dei figli fin dai primi mesi di vita.
Troppa famiglia «fa male non soltanto al singolo individuo e alla sfera privata, ma anche alla sfera pubblica e alla società», chiarisce subito l’autrice, che nel libro parte dai concetti di “cittadino-bambino” e di “plusmaterno” per spiegare le conseguenze di una dipendenza malsana tra madri e figli, riscontrabile oggigiorno in molte famiglie italiane. Crescere generazioni di cittadini adulti ancora attaccati al grembo materno, incapaci di autonomia, può aprire la strada a imbarbarimento culturale, fanatismi religiosi e politici, totalitarismi e tirannie, è la tesi della Pigozzi che, nel libro, ricostruisce con questa chiave di lettura sia la propensione all’obbedienza dei giovani sia il rapporto di Hitler con la madre e col nazismo.
La famiglia non dovrebbe crescere cittatdini-bambini o bambini-tiranni
Laura Pigozzi ci spiega innanzi tutto che disobbedire alla madre, rendersi indipendenti e allontanarsi dai genitori sono fasi cruciali della crescita, così come la scuola è il luogo dove non soltanto si apprende il sapere, essenziale per sviluppare il pensiero critico, ma dove s’impara a rapportarsi agli altri e a vivere in comunità.
«La scuola rappresenta la prima polis per i nostri figli, un collettivo che sta al di fuori della famiglia e che è fondamentale per apprendere la socialità.»
Se infatti saranno loro a costruire la società del futuro, «siamo noi adulti a dover pensare ai bambini e agli adolescenti non soltanto come figli, ma come cittadini».
Invece, chiudiamo le scuole e manchiamo nell’educarli a un’etica sociale, col rischio di crescere cittadini-bambini o bambini-tiranni:
«È il bambino a cui nessuno ha detto “no” e che può diventare quell’adulto senza legge che interpreterà a suo piacere norme e divieti, come hanno dimostrato i rivoltosi che sono entrati in Campidoglio vestiti da vichinghi. È stata una barbarie com’è barbaro il bambino che, attaccato al seno materno, non ha naturalmente il senso del limite. La struttura del fenomeno è la stessa: se sono abituato ad “assaltare” il corpo materno perché non mi è proibito il tabù dei tabù, cioè il corpo della madre, allora la legge non avrà più effetto su di me e sarò pronto anche ad assaltare Capitol Hill.»
All’origine di tutto sta il plusmaterno, neologismo coniato dall’autrice che, per prima, ha applicato questa inedita prospettiva nello studio dei nuovi legami delle famiglie contemporanee. «Anziché aiutare il figlio a crescere, la madre plusmaterna lo tiene legato a sé in un rapporto di dipendenza totale, come se non fosse in grado di farcela da solo. Succede quando la madre non interrompe la funzione simbiotica col figlio, necessaria nei primissimi tempi di vita del neonato, per sostituirla con la funzione simbolica, che connette il bambino al mondo e che dovrebbe portare la mamma ad aprire le braccia e a dirgli “vai!”. Il plusmaterno è quel non aprire le braccia, è ciò che porta una mamma a chiedersi: “Perché non posso dormire con mio figlio?” o a farla narcisisticamente rallegrare di stare a casa coi figli, com’è successo per molte donne durante il primo lockdown, che è stato una sorta di festa del plusmaterno, dell’amore assoluto», ci racconta la psicoanalista, che nel libro riporta molti casi di donne “plusmaterne” tratti dalla sua lunga esperienza clinica.
«Non c’è investimento sociale sul futuro se la madre tende a porsi come l’unico mondo possibile per il figlio. I ragazzi devono poter lasciare la famiglia d’origine senza che ciò diventi una tragedia, e fare il genitore deve essere un lavoro a termine, mentre oggi sembra non terminare mai.»
È l’immaginario falso e romanticizzato della maternità, che occulta la fatica di essere madre e che, secondo Pigozzi, nasconde una trappola per le donne. «Ho visto giovani donne con alle spalle master prestigiosi e studi all’estero che alla nascita del primo figlio hanno abbandonato l’investimento fatto su se stesse per fare le mamme a tempo pieno», col risultato di farsi sostituire, ancora una volta, dai maschi sul mercato del lavoro.
«Riorganizzare la scuola con la didattica a distanza è stato innanzi tutto un duro colpo al lavoro femminile.»
Cosa significa per una famiglia avere le scuole chiuse?
Ma chiudere le scuole durante la pandemia è stato un duro colpo anche all’indipendenza dei ragazzi. «Purtroppo non vedo alcun progetto sociale che pensi ai giovani come protagonisti del domani», sostiene Pigozzi. «Eppure l’affrancamento dalla sottomissione, che Primo Levi chiamò “l’originaria infezione dell’anima”, è il cammino che deve compiere l’umanità in ogni epoca e che rispetto al passato incontra oggi più ostacoli, il primo dei quali è proprio il plusmaterno. Gli individui abituati alla dipendenza cadono più facilmente nelle maglie del fanatismo o del dolce acquietarsi nella massa. Quanti sono quelli che, provando la sensazione di non aver concluso niente nella vita, ritrovano nella massa quelle virtù e quella forza che come singolo non posseggono, perché l’unica cosa che la massa richiede è un requisito minimo e senza merito, quello di essere nato in una certa nazione? Ce lo insegna la storia: l’unica qualità richiesta dal nazismo era quella di essere ariani».
Oggi la famiglia si è chiusa in se stessa nutrendosi della acquiescenza dei propri figli, che però una volta fuori di casa non sono attrezzati ad affrontare il mondo.
«La dipendenza dalla madre si trasferisce così su un’altra forma di dipendenza: computer, droghe, alcol, giochi d’azzardo, fanatismi religiosi o politici»,
spiega Pigozzi. «Il che non può non preoccuparci, perché il totalitarismo si fonda sul bisogno di dipendenza degli individui. Rinunciare a impegnarsi a favore dell’indipendenza dei figli facilita la tendenza inconscia in ogni essere umano alla stasi. Se non invogliamo i nostri figli ad andare all’asilo, a studiare all’estero, a fare le proprie esperienze fuori di casa, non combattiamo quell’originaria infezione dell’anima».
Non si tratta soltanto di evitare il rischio estremo di una deriva totalitaria delle nostre società contemporanee. I riflessi si vedono anche nell’intimità delle nostre vite quotidiane e ordinarie, come ci dimostra Laura Pigozzi citando un dato incredibile: il 30 per cento delle sentenze di separazione e divorzio sono attribuibili a fattori legati alla dipendenza di uno dei due coniugi dalla propria madre. «Quando la casa-rifugio assume valore assoluto, si crea un legame dannoso che raramente si scinde col matrimonio», spiega la psicoanalista. «Molti uomini rimangono sposati con la madre, anche se in realtà hanno sposato un’altra donna. Fingono di fondare un nuovo nucleo familiare, ma in realtà rimangono ancorati alla famiglia d’origine».
Qual è il ruolo del padre nella famiglia contemporanea?
Un altro effetto devastante del plusmaterno riguarda proprio la funzione paterna, che appare oggi più che mai indebolita. «Durante un corso sulla vocalità per gestanti», ricorda Laura Pigozzi, che è anche insegnante di canto, «invitavo i papà a vocalizzare sulle pance delle mamme per far sentire al bambino che i rumori bassi non erano solo quelli del corpo materno, ma provenivano anche dall’esterno. Perché, se la mamma non presenta il padre al bambino il prima possibile durante la gestazione, la funzione paterna tarderà a esplicarsi. Oggi come oggi, in epoca di plusmaterno, il padre è totalmente disarmato», continua Pigozzi. «Sempre più spesso la madre lo presenta ai figli come sua appendice, privandolo di ogni significato proprio. La conseguenza è che il papà, per entrare laddove non è stato presentato, si comporta come un imbucato a una festa: scimmiotta la mamma oppure fa il padre dell’orda, fuori dalla legge».
Da dove ripartire, allora, per ripristinare il corretto funzionamento della famiglia e assicurare ai figli il miglior futuro possibile, come individui e come cittadini? Dalla valorizzazione delle donne in quanto esseri umani degni di riconoscimento personale e sociale, ci suggerisce Pigozzi, al di là che siano o non siano madri.
«La madre è l’Uno, come si dice in psicoanalisi, apprezzata sotto ogni regime, esaltata nel suo essere procreatrice, anche se poi mancano gli asili. La pancia è bellissima, va di moda esporla e fotografarla sui social, proprio in base al meccanismo di esaltazione della maternità che opprime la donna che c’è in ogni madre e che non si risolve in essa. Basta essere madre per avere un ruolo riconosciuto. Tuttavia la donna è un essere complesso, una specie di puzzle, con tante anime e sfaccettature. Molte donne si rifugiano nella maternità con l’illusione di realizzare la propria femminilità, ma ignorano il fatto che essere madre non coincide con l’essere donna.»
La vera svolta sarebbe allora creare le condizioni affinché le donne siano valorizzate indipendentemente dal fatto di essere madri. «Dobbiamo riconoscere il desiderio di non maternità», conclude Laura Pigozzi.
«Il femminismo oggi sostiene le ragioni del non binarismo, della transessualità, dell’autodeterminazione del genere. Come posso essere non determinata dalla biologia per esprimere il mio genere, così non è perché posso partorire che debbo farlo al fine di esprimere me stessa.»
È allora proprio qui, nell’equilibrio tra la componente femminile e quella materna, che si gioca il futuro delle donne ancor prima di quello dei figli, «nel dare riconoscimento al desiderio di non essere madre e valore alle donne che non hanno bisogno della maternità per sentire di esistere».