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Secondo John Gray i gatti possono insegnarci a vivere

C’è da scommettere che anche i più convinti detrattori dei selfie con mici e micioni che impazzano sui social non rimarranno indifferenti ai suggerimenti per vivere bene dispensati da un grande filosofo, che ha vissuto per trent’anni con quattro gatti.

Già, perché questa volta John Gray, saggista bestseller e docente di filosofia di fama internazionale, che ha insegnato in università del calibro di Oxford, Harvard, Yale e London School of Economics, ha sfidato tutti i luoghi comuni sull’apparente mancanza d’empatia di questi animali e in Filosofia felina. I gatti e il significato dell’esistenza ci spiega addirittura perché avremmo da imparare dal loro modo d’affrontare la vita.

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Per secoli i filosofi hanno tentato di dare risposte alle grandi questioni dell’esistenza: che cos’è la felicità? Come raggiungerla? Come evitare di soffrire? Quale il segreto per amare e essere amati?

John Gray spiega la differenza tra uomini e gatti

In Filosofia felina Gray analizza il pensiero di grandi pensatori – da Seneca a Spinoza, da Pascal a Schopenhauer, da Aristotele a Montaigne – fino a sconfinare nel terreno letterario della nota passione per i gatti da parte di scrittori e scrittrici come la francese Colette, che li definiva necessari alla propria solitudine, per invitarci a guardare alla condizione umana con gli occhi di un gatto (ovvero con occhi diversi dai nostri) e per dimostrarci che, alla fin fine, non tutti i patimenti quotidiani sono tanto inevitabili quanto crediamo.

La differenza tra l’uomo e il felino, scrive infatti Gray, è che, «mentre i gatti non hanno nulla da imparare da noi, noi possiamo imparare da loro ad alleggerire il peso che accompagna la condizione umana. Un fardello di cui possiamo liberarci è la convinzione che esista qualcosa come una vita perfetta. Non perché le nostre esistenze siano inevitabilmente imperfette. Esse sono così ricche da travalicare ogni idea di perfezione. La buona vita non è quella che potremmo aver sperimentato o che ancora ci aspetta: è quella che abbiamo. È in questo che i gatti possono farci da maestri, perché non rimpiangono le vite che non hanno vissuto».

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Secondo Gray, è l’autocoscienza umana ad aver prodotto «quella perpetua insoddisfazione che la filosofia ha cercato invano di curare», mentre

«i gatti non hanno bisogno di analizzare la propria vita, perché non dubitano che valga la pena di essere vissuta.»

 

Obbedendo alla propria natura, ci ricorda il filosofo, «i gatti si reputano paghi di ciò che la vita offre loro. Negli uomini, al contrario, l’insoddisfazione pare una costante».

 

«Con esiti prevedibilmente tragici e farseschi, l’animale uomo si sforza sempre di essere qualcosa che non è. I gatti no.»

 

«Gran parte della vita umana è una lotta per la felicità; tra i gatti, al contrario, la felicità è lo stato naturale cui fare ritorno una volta eliminate le minacce concrete al proprio benessere. Forse è soprattutto per questo che li amiamo: ottengono per diritto di nascita ciò che noi, il più delle volte, non riusciamo a raggiungere».

I gatti non soffrono di ansia, gli umani sì. Per questo è nata la filosofia

La filosofia nasce dall’ansia e i gatti non ne soffrono, «a meno che non siano minacciati o non si ritrovino in un luogo sconosciuto. Per gli uomini, il mondo intero è minaccioso e bizzarro».

Ed è proprio per affrontare un mondo incerto, in continuo mutamento, che può essere da esempio la leggendaria imperturbabilità felina.

«I gatti non pianificano l’esistenza: la prendono come viene. Gli uomini, invece», avverte Gray, «non possono fare a meno di trasformare la loro vita in una storia. Siccome però non sanno come andrà a finire, la vita stessa scombussola la storia che cercano di raccontare».

Samuel Johnson, lo scrittore inglese figlio di un libraio, soffriva di attacchi di melanconia ed era un grande amante dei gatti. Come racconta Gray, «raggiungeva a piedi la città per comprare a Hodge, il suo compagno felino dal manto nero, qualche ostrica, o la valeriana per lenirne i dolori quand’era ammalato».

Un comportamento che apparirà del tutto normale a quanti vivono con un gatto, i quali molto probabilmente si faranno la stessa domanda che si poneva il filosofo Michel de Montaigne:

 

«Quando mi diverto con la mia gatta, chi sa se essa non passi il suo tempo con me più di quanto non faccia io con lei.»

 

Insomma, vivere bene non significa essere sempre più consci, avverte Gray, «significa essere se stessi. E ciò vale per ogni entità vivente». In altre parole, dovremmo vivere per noi stessi, in base alla natura che ci è propria, come fanno i gatti e come insegnava Aristotele, «che riteneva che ogni cosa nell’universo avesse un telos, uno scopo: realizzare la propria natura, qualunque fosse. Raggiungere quel fine», scrive Gray, «significava condurre una buona vita».

Invece la nostra vita pare essere, scrive ancora Gray, «una sequela di tic: carriere professionali, storie d’amore, viaggi e visioni filosofiche che cambiano sono spasmi di menti che non riescono a trovar pace».  Per dirla con Pascal, «gli uomini non sono capaci di restarsene tranquilli in una camera. Johnson, lo sapeva, non sarebbe riuscito a sedersi serafico in nessun posto, non era in grado di tenere a bada la propria irrequietezza. Come altri esseri umani, era preda della propria immaginazione».

La celebre autrice americana Patricia Highsmith, ricorda Gray, nutriva un amore passionale per i gatti, dei quali scrisse:

«Offrono agli scrittori ciò che gli umani non sono in grado di dare: una compagnia senza pretese e senza intrusioni, riposante e mutevole come il movimento appena percettibile di un mare tranquillo”.»

 

Ripercorrendo dagli albori la storia dell’uomo, Gray spiega che c’è un motivo più profondo «se gli uomini accettarono i gatti nelle loro case», ovvero «questi ultimi insegnarono loro ad amarli. Ecco il vero fondamento della domesticazione felina. I gatti sono così seducenti e misteriosi che spesso sono stati visti come creature ultraterrene. E l’uomo, per non impazzire, ha bisogno di qualcosa che vada al di là del suo mondo».

 

Stando a quanto scrisse Erodoto,

«se nell’antico Egitto andava in fiamme una casa gli abitanti si preoccupavano più per i gatti che per i loro beni.»

 

Si narra persino che «il profeta Maometto si tagliò una manica della veste per non disturbare un gatto che ci dormiva sopra, mentre nel Medioevo il sultano Baybars adibì un giardino del Cairo a rifugio per gatti randagi».

 

In The Cat from Huế, toccante resoconto sull’esperienza umana della guerra, il giornalista della CBS John Laurence descrive come si affezionò al gatto Meo, «un acciaccato veterano della guerra in Vietnam» che decise di salvarlo portandolo con sé in America, lontano dagli orrori a cui il micio aveva assistito.

 

Ma Gray fa anche chiarezza su alcune credenze che continuano a influenzare, nel bene e nel male, la nostra esistenza. «Abbiamo ereditato la convinzione che la forma più elevata di moralità sia l’altruismo, il vivere per gli altri. Nell’ambito di questa tradizione l’empatia è al centro di una buona vita. Al contrario, i gatti non sembrano lasciarsi influenzare dalle emozioni altrui, a parte quando si tratta dei loro cuccioli. Riescono ad avvertire se i loro compagni umani sono in preda all’angoscia, e possono star loro vicini nei momenti di difficoltà; sanno offrire conforto a chi è ammalato o morente, ma non si sacrificano in nessuno di questi ruoli. Si limitano, con la loro sola presenza, a lenire il dolore degli uomini».

 

Talvolta i gatti possono sembrare imperturbabili, è vero,

«ma è solo perché manifestano le loro emozioni con le orecchie e la coda anziché attraverso espressioni facciali. Anche le fusa servono a tale scopo; di solito sono una manifestazione di felicità, ma non sempre: a volte possono segnalare angoscia. In ogni caso, non sono mai false.»

 

E così Gray ci ricorda che «l’amore dei gatti possiede molte qualità che mancano a quello umano. Essi non amano per distrarsi dalla solitudine, dalla noia o dalla disperazione: lo fanno solo quando colti dall’impulso del sentimento, e se sono in compagnia di qualcuno che apprezzano». Con buona pace di chi patisce le pene dei tradimenti d’amore.

 

«Ciò che vogliono da noi è un luogo sicuro, in cui poter tornare alla loro condizione normale di soddisfazione. Se una persona offre loro un luogo simile, allora possono arrivare ad amarla.»

 

Insomma, val la pena ascoltare John Gray e leggere fino alla fine il suo libro, che si chiude con dieci imperdibili suggerimenti felini per vivere bene, a partire dal primo:

«Non cercate mai di convincere un umano a essere ragionevole. Tentare di convincere un uomo a essere razionale è come tentare di convincere un gatto a diventare vegano.»

 

Ma, attenzione. «Un filosofo felino non incoraggerebbe gli esseri umani a inseguire la saggezza», avverte in conclusione John Gray. «Se la vita così com’è non vi dà alcun piacere, trovate appagamento nell’incostanza e nell’illusione. Non lottate contro la paura della morte: lasciate che quel pensiero svanisca da sé. Se bramate la tranquillità, vi ritroverete sempre in subbuglio. Anziché voltare le spalle al mondo, fissatelo negli occhi e abbracciatene la follia». Parola di filosofo.