Il richiamo della foresta. Note a margine di Oriana Fallaci
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Redazione BookToBook
02 Mar 2020
Tra i più grandi romanzi d’avventura di tutti i tempi, Il richiamo della foresta racconta la lotta viva in ciascuno di noi, quella tra civiltà e istinto, e lo fa con un ritmo cinematografico serrato e splendido attraverso il “calvario di un cane” che, strappato al padrone e alla California per essere condotto tra le gelide nevi del Klondike, apprende l’arte feroce della sopravvivenza.
Fu proprio questo aspetto a colpire Oriana Fallaci che racconta il suo approccio al capolavoro di Jack London in un’appassionante introduzione alla nuova edizione con nuova traduzione de Il richiamo della Foresta di cui riportiamo una parte qui, all’interno nostra rubrica note a margine.
Mentre al cinema arriva un nuovo remake del classico di Jack London diretto da Chris Sanders e interpretato da Harrison Ford, leggiamo insieme le parole di Oriana Fallaci.
Il richiamo della foresta secondo Oriana Fallaci
Non ricordo chi mi dette quel libro. Forse mio padre, forse mia madre. Ma ricordo che aveva la copertina rossa e che stava, insieme a molti altri libri dalla copertina rossa, in un mobile con gli sportelli di vetro. I libri, a quel tempo, erano i miei balocchi. E il mobile con gli sportelli di vetro era il mio paradiso proibito perché la mamma non mi permetteva di aprirlo. «Sono libri del babbo, sono libri da grandi, non da bambini» diceva. La mamma era convinta che più a lungo un bambino resta bambino, meglio è. Così selezionava con molto rigore ciò che leggevo, mi consentiva soltanto quel che giudicava innocuo per l’innocenza di una dodicenne: De Amicis, Salgari, Verne. E, a suo parere, il mobile con gli sportelli di vetro conteneva pericoli, insidie: Guerra e pace, Delitto e castigo, Le memorie di Casanova.
Quest’ultime addirittura illustrate con disegni inquietanti.
Lo avrei saputo dopo, da grande.
Infatti, nella prima fila, quei titoli non si scorgevan nemmeno. Nella prima fila c’erano esclusivamente i volumi con la copertina rossa e su quelli, non su gli altri, sognavo.
Erano belli perché erano misteriosi. E perché, quasi sempre, il nome dell’autore era un nome che si pronunciava come un colpo di tosse e poi come una linguata: Jack London.
Proprio di fronte al paradiso proibito stava il mio divanoletto, e quel giorno ero malata. D’un tratto qualcuno aprì lo sportello, disse leggi-questo-qui, e un libro con la copertina rossa cadde tra le mie mani. Lo afferrai con l’avidità con cui si afferra un regalo atteso troppo a lungo. Era un libro di Jack London, Il richiamo della foresta.
Lo sfogliai con la delicatezza che si usa quando si tocca un velo. La carta era dura, pesante, quasi un cartoncino.
La seconda pagina informava che il volume era edito dalla Romantica Editoriale Sonzogno, allo scopo di divulgare in Italia e a mitissimo prezzo i romanzi di grande successo: costo del presente, lire quattro e cinquanta. Bevvi piano piano le prime righe ed esse mi offrirono mille promesse:
«Buck non leggeva i giornali. Così non poteva sapere i guai che si preparavano non solo per lui ma per tutti i cani di grandi dimensioni, forte muscolatura, pelo caldo e lungo, fra lo stretto di Puget e San Diego. Perché gli uomini, scavando nelle buie profondità dell’Artico, avevan trovato un biondo metallo e le compagnie di navigazione o trasporti avevan diffuso la notizia facendoli accorrere a migliaia nelle regioni del Nord. Questi uomini avevano bisogno di cani.
E i cani che cercavano dovevano essere forti, di robusta muscolatura per sopportar le fatiche, con folte pellicce per proteggersi dal freddo».
Mi innamorai subito di Buck. E il colpo di fulmine fu tanto struggente che mi staccai da Buck solo all’alba, al momento in cui egli mi abbandonò per correre dietro ai lupi e divenire lupo lui stesso. Dalla camera accanto, la mamma brontolava: «Spengi la luce! Vuoi spenger la luce e dormire?».
Ma io non volevo, non potevo spenger la luce e dormire. Sarebbe stato come togliermi un pezzo di pane dalla bocca, buttar via un sortilegio che mi avviluppava per trasformarmi. Quando ebbi finito il libro, infatti, non ero più una bambina che crede a De Amicis e a Salgari e a Verne in un mondo di bugie affascinanti e pietose. Ero una bambina pronta a trattar con gli adulti in un mondo di dure realtà. Una bambina cui Buck aveva insegnato che la vita è una guerra ripetuta ogni giorno, spietata, crudele, una lotta da cui non puoi distrarti un minuto, neanche mentre dormi, neanche mentre mangi, altrimenti ti rubano il cibo e la libertà.
Dio, era così facile perdere la libertà.