Perché la poesia può dare un nome a ciò che stiamo vivendo
Scritto da:
Redazione BookToBook
08 Apr 2020
Se in questo particolare momento storico non riesci a leggere romanzi, tranquillo: non sei il solo. Ma forse potresti provare con la poesia.
“Questa mattina ci siamo svegliati
presto e all’alba siamo usciti in giardino.
Si diceva da tempo che dovesse
succedere qualcosa di lacerante.
Che fosse proprio oggi, però, questo
non lo sapevamo.”
Rileggendo in questi giorni incredibili i versi di Dove non siamo stati, la raccolta di poesie di Giovanna Cristina Vivinetto uscita lo scorso mese, ci si sorprende a scoprire quanto i suoi versi siano in molti punti perfetti per descrivere quanto sta accadendo e – più ancora – per dare un nome a ciò che noi tutti, come singoli e come comunità, stiamo vivendo.
La maggior parte dei lettori, anche forti, non pratica con assiduità la parola poetica: le nostre biblioteche riservano ai testi in versi spazi piuttosto ristretti, eppure le settimane di smarrimento, angoscia e limitazione che stiamo vivendo potrebbero essere l’occasione giusta per scoprire la potenza della poesia.
In molti stanno registrando nei lettori, che sono i primi a parlarne e condividere sui social questo malessere, una difficoltà nel rapporto con i libri e con i testi abitualmente praticati.
Se in questo periodo non riesci a leggere romanzi, prova con la poesia
“Perché non riusciamo a leggere un romanzo all’epoca del coronavirus” è il titolo di un pezzo di Beniamo Pagliaro pubblicato il 26 marzo su Repubblica. I romanzi (e come questi le altre forme di narrazione che sono moneta corrente nella nostra quotidianità, come le serie tv e i film) non fanno presa, le trame spesso ci appaiono fuori luogo nel loro essere completamente estranee all’impensabile che stiamo vivendo.
È una situazione che descrive bene Marco Mancassola in un post pubblicato su Facebook qualche giorno fa: “ i romanzi sono difficili, le storie restano inerti sotto i miei occhi, (…) non offrono la consolazione di alcun segreto ulteriore. Forse perché la pazienza per leggere un romanzo era in crisi da anni, adesso che il mondo si sfigura di ora in ora la pazienza si è dissolta (…). Resistono alcuni classici, resiste certa poesia, leggo Whitman, Leopardi, Kate Tempest, Szymboska, a volte leggo una loro pagina e riverbera per qualche ora dentro di me, fa il preciso effetto di una preghiera, un’orazione luminosa.”
“Qui c’eri tu col tuo crimine senza nome,
al di là delle imposte tutto il mondo
che non volevi contaminare. C’era
la purezza dell’animale ferito
in questo toglierti dalle circostanze.
Volevi bastare solo per te stesso.”
Perché questo ritorno alla poesia, questa piccola riscossa di un genere che, nella sua forma meno pop e spettacolare, ultimamente si è ritrovato sempre più ai margini? Forse perché nel momento in cui un silenzio irreale si appropria delle strade e spegne anche il costante ronzio della nostra routine quotidiana, torna il bisogno di qualcosa in grado di riportarci al centro di noi stessi, delle nostre esistenze. Anche solo di un testo che sappia leggere e dare un nome al senso di smarrimento che ci abita.
“Io vorrei tanto sapere cosa
è andato perduto, se una parte
si può ancora salvare, quel che rimane
tra noi vorrei tanto sapere.
Il peso specifico di ciò che ci opprime.”
E allora la parola giusta, che il poeta ha distillato fino a trovare la formula più esatta, più precisa, è l’unica che ci appare portatrice di una verità, l’unica in grado di toglierci, anche solo per un attimo, dal maelstroem di una realtà ormai impazzita e incontrollabile. Leggendo poesia ci spostiamo dal vortice ed entriamo nell’occhio del ciclone, in quel centro di calma perfetta che riesce al contempo a essere parte del tumulto (l’occhio del ciclone non esisterebbe se non esistesse il ciclone) e a esserne fuori. Tale statuto straordinario della parola poetica la rende una delle rare medicine a cui la nostra mente risponde positivamente in un periodo di sconvolgimento e destabilizzazione come questo.
E, affinché ci parlino, non occorre che i versi che leggiamo siano sgorgati dalle stesse prove e dai medesimi travagli che attraversiamo noi. In poesia il contingente viene spazzato via: resta il nucleo, l’essenziale. Per questo i versi di Giovanna Cristina Vivinetto, scritti ben prima di questa epidemia, conservano intatta la loro verità, che non vale solo per l’esperienza dell’autrice, ma per il vissuto di ciascuno.
Perché leggere la poesia di Giovanna Cristina Vivinetto
I versi che fin qui hanno scandito le righe di questo mio testo provengono dalla prima sezione della raccolta, La misura dello strappo: l’autrice fa i conti con le conseguenze e gli irrisolti della trasformazione che ha attraversato, il cambiamento di sesso. Dal corpo ormai perduto di Giovanni si alzano richiami dolorosi ma familiari, echi che il sé abbandonato riesce a far trapelare attraverso lo spiraglio ancora socchiuso tra il prima o l’ora.
Eppure queste stesse parole descrivono con precisione quasi spaventosa il nostro smarrimento, il vacillare della nostra identità ora che la normalità di ciascuno è stata spazzata via dalle regole che ci stiamo imponendo per fronteggiare l’emergenza. Quei versi accomunano l’esperienza di chi scrive e di chi legge nel loro mappare l’oscillare continuo e destabilizzante tra ciò che era e ciò che è ma ancora non si conosce, l’addio a una realtà che sembrava immutabile ma che ora non è più – non può più essere nemmeno se si volesse tornare indietro.
“A questo stato di cose noi
non potevamo ribellarci, non più.Perché sotto forma d’acqua, di terra,
di luce o di ombra, di bestia o corteccia,
da ora in poi avrebbe sempre trovato il modo
per ritornare qui. E chiederci il conto.”
Ma non è solo una scissione tutta interna al sentire del singolo, quella che troviamo nei versi di Giovanna Vivinetto. I nodi con cui fa i conti nelle sezioni ulteriori di Dove non siamo stati, ci toccano altrettanto nel profondo, e risuonano profetici e commoventi in questi giorni.
“Valicabili sono tutte le cose.
Da qui a lì c’è solo il passo leggero
che si compie tra le grate assolate
della finestra. Ma i corpi questo
non sanno dirlo e restano con l’ansia
della vita tutta chiusa dentro,
fissata al lenzuolo, al materasso intriso
di quel che resta quando ci si spegne.”
Dal lungo canto d’addio che, in Il paniere sul balcone, la poetessa intona alla nonna che si spegne per malattia, fino alla Spoon River siciliana di Ciuriddia, in cui vicoli idealmente deserti risuonano delle voci di chi li ha abitati e resi vivi fino a un passato non troppo lontano – le analogie con il nostro vissuto costellato di separazioni e di città svuotate appaiono fin troppo evidenti. Ma, ben al di là delle somiglianze superficiali ovvie anche per lo sguardo più frettoloso, c’è una verità più profonda che ci attende tra le righe per interrogarci, rispecchiarci, e ospitarci in un breve momento di grazia e verità.
E allora, per tutti coloro che si sentono smarriti, il suggerimento per trovare parole vere che parlino al proprio spaesamento e dolore è quello di aprire un libro di poesia.