Quando leggiamo la storia di un killer, di un criminale, sono le zone oscure della sua mente a tenerci incollati alla pagina, sono le sue perversioni l’oggetto della nostra inconfessabile attrazione.
Del resto, come diceva Agatha Christie:
“Ognuno di noi è un potenziale killer.”
Guardare la realtà attraverso gli occhi di un assassino significa non avere più filtri tra noi e il Male, e scoprire che può annidarsi ovunque, anche dentro di noi.
Questa antologia ci porta, racconto dopo racconto, al confine dove i buoni si specchiano coi cattivi, mettendoci di fronte al più terribile dei segreti: la persona più innocente può assumere il volto di un omicida. Nei racconti selezionati da Luca Crovi i maestri del genere si misurano con lo sguardo dei cattivi, ne vestono i panni, ne fanno i loro veri protagonisti.
Storie di killer e delle zone oscure della nostra mente
L’occhio dell’assassino è un’antologia noir che ti porta a fare un viaggio diviso in venti racconti nella mente criminale, proprio lì, al confine dove i buoni si specchiano coi cattivi, mettendoti di fronte al più terribile dei segreti: la persona più innocente può assumere il volto di un omicida.
Nei racconti selezionati da Luca Crovi i maestri del genere si misurano con lo sguardo dei cattivi, ne vestono i panni, ne fanno i loro veri protagonisti: incontrerai così il Capitan Assassino di Dickens, i ladri di cadaveri di Stevenson, il detenuto n. 82 di Conan Doyle, la casalinga ingrigita di Maurizio de Giovanni che si confronta con il commissario Ricciardi, “la primula rossa di Corleone” di Camilleri…
Un viaggio infernale che parte dagli autori che hanno inventato e reso grande il genere e arriva fino a oggi, con piccoli capolavori inaspettati: da Hoffmann a Sciascia passando per Flaubert, Poe, Svevo e Hitchcock, per chiudere con un racconto inedito di Massimo Carlotto dedicato agli ultimi istanti di vita di Charlie Starkweather, il James Dean dei serial killer, a cui Springsteen ha dedicato la canzone Nebraska.
Leggi il racconto inedito del maestro del brivido Alfred Hitchcock
Non era mai stata in questa zona di Parigi, ne aveva solo sentito parlare nei romanzi di Duvain o l’aveva vista al Grand Guignol.
Dunque era quella, Montmartre? Quell’orrore in cui il pericolo si acquattava con il favore della notte, in cui le anime innocenti soccombevano senza preavviso, in cui il destino affrontava gli incauti, in cui sguazzavano gli apaches.
Si muoveva cauta all’ombra di un alto muro, voltandosi per guardare furtiva verso la minaccia nascosta che forse la stava pedinando. S’infilò di scatto dentro a un vicolo, senza badare troppo a dove conducesse, arrancando nel buio color inchiostro con in mente solo di sfuggire all’inseguimento. Avanzò. Oh!
Quando sarebbe finita?
Poi le si offrì alla vista una porta da cui usciva un fascio di luce: qui dentro; ovunque, pensò.
La porta si trovava in cima a una rampa di scale, scale che per via degli anni scricchiolavano mentre lei cercava di scenderle con cautela. Poi udì il suono di una risata ubriaca, e rabbrividì: allora doveva trattarsi di… No, quello no! Tutto, ma non quello!
Giunse in fondo alla scala e vide una taverna maleodorante, dove gli spettri di coloro che un tempo erano stati uomini e donne si stavano dando a un’orgia alcolica. Poi loro videro lei, un’apparizione di candore impaurito. Cinque o sei uomini le corsero incontro tra le incitazioni degli altri. La afferrarono.
Lei urlò terrorizzata; sarebbe stato meglio essere presa dal suo inseguitore, fu il suo unico, fugace pensiero mentre veniva trascinata bruscamente dall’altra parte della stanza. Quei demòni non ci misero molto a decidere il suo destino. Si sarebbero spartiti i suoi averi, e lei stessa.
Be’, non era forse quello il cuore di Montmartre? Lei doveva sparire, i topi dovevano banchettare. Poi la legarono, e le fecero attraversare un corridoio buio. Salire una scala verso la sponda del fiume. I topi di fogna dovevano banchettare, dicevano quelli.
E poi… Poi, dopo aver fatto dondolare avanti e indietro il suo corpo legato, la gettarono con un tonfo umido nell’oscurità delle acque vorticose. Scese giù, sempre più giù; conscia soltanto di una sensazione di soffocamento, quella era la morte.
Poi…
«Tolto, signora» disse il dentista. «Mezza corona, grazie.»