È la vita e le avventure, la determinazione e il coraggio, l’accuratezza e il rigore di una delle corrispondenti di guerra più autorevoli del Novecento a ispirare le pagine di La guerra dentro. Martha Gellhorn e il dovere della verità, una riflessione onesta e illuminante sul ruolo del giornalismo e sulla sua rilevanza per la democrazia e per la libertà, in un’epoca in cui s’è persa la fiducia nei confronti non soltanto della politica e delle istituzioni, ma anche dell’informazione. Ad aver dedicato questo nuovo libro alla reporter nata nel 1908 a Saint Louis, Missouri; alla ragazza decisa a scoprire il mondo che a ventun anni appena si imbarcò da sola sui Chelsea Piers del fiume Hudson per attraversare l’Atlantico e raggiungere l’Europa, è un’altra ben nota e autorevole giornalista, Lilli Gruber che, come Martha, ha raccontato dalla prima linea, a rischio della propria vita, molti fronti di guerra.
«Occorrono coraggio e curiosità per gettarsi nel vivo degli eventi, anche a chi sceglie questo mestiere oggi. Ne occorrevano ancora di più negli anni Trenta, quando attraversare l’oceano era un’avventura e andare su un fronte di combattimento, per una giovane donna sola, era praticamente impensabile. Se Martha Gellhorn è stata la più grande giornalista di guerra del Novecento è perché a neanche trent’anni si è buttata senza paura nel suo primo vero conflitto.»
Vite allo specchio: Martha Gellhorn e Lilli Gruber
Martha Gellhorn è stata l’unica donna corrispondente di guerra a sbarcare sulla spiaggia della Normandia il 6 giugno 1944, tra i pochi giornalisti testimoni oculari del D-Day. Come inviata della rivista americana “Collier’s” aveva già scritto sulla guerra civile in Spagna nel 1937-38 e su un conflitto trascurato ma importante come quello in Finlandia, nel dicembre del 1939. Nel 1941 andò in Cina, percorrendo il paese «in aereo, in barca, a cavallo e a piedi per raggiungere la linea del fronte con il Giappone». Nel gennaio del 1944 arrivò in Italia per seguire le truppe degli Alleati. «A settembre del 1944 Martha si trova con l’esercito canadese davanti alla famigerata Linea Gotica, una delle linee di difesa più temibili costruite dai tedeschi nella penisola italiana, una barriera ritenuta insormontabile». Di quel che vide, Martha scriverà:
«In questo tempo limpido e sognante che è la fine dell’estate, le colline si ergono contro il cielo, azzurro come l’acqua; nella notte chiara e senza vento, appaiono come una morbida sagoma scura sotto la luna. Lungo la via Emilia, che corre alla base di queste colline, i tedeschi hanno fatto saltare tutti i villaggi riducendoli a mucchi informi di macerie per sgomberare la linea di tiro. Fra gli alberi abbattuti, nel letto ghiaioso e nell’acqua bassa del fiume Foglia hanno steso il filo spinato e seminato le loro mine, rozze scatolette di legno, piccole lattine rugginose, le frittelle piatte di metallo che sono le armi più semplici e letali d’Italia.»
Dopo aver seguito dal 1988 come inviata per la Rai i principali avvenimenti internazionali, e prima donna a presentare un telegiornale in prima serata, oggi Lilli Gruber è uno dei volti televisivi di maggior successo, conduttrice dal 2008 di Otto e mezzo su La7; ma non ha mai dimenticato la curiosità e le suggestioni che le suscitò da adolescente, quando già leggeva in inglese per imparare la lingua, la dedica «A Martha Gellhorn» che Ernest Hemingway compose in esergo a For Whom the Bells Tolls (Per chi suona la campana).
La guerra dentro. Martha Gellhorn e il dovere della verità, appena pubblicato da Rizzoli, è il ritratto e l’omaggio che Lilli Gruber fa di una donna e di una giornalista straordinaria, che fin da giovanissima ha combattuto per ottenere pari diritti e pari opportunità degli uomini sul lavoro così come nel privato.
Martha, scrive Lilli,
«è stata fin da giovane una pioniera dei diritti femminili e sosterrà per tutta la vita che il miglior modo per difenderli sia farsi avanti: “Le donne hanno paura di parlare, conoscono perfettamente l’autoreferenzialità dei maschi, e temono di perdere la loro attenzione se osano presentare le proprie vite come autonome e importanti”, scriverà con grande saggezza.»
Il matrimonio con Ernest Hemingway, che Martha sposò nel 1940 e di cui racconta Lilli Gruber, non è una nota romantica a spezzare la crudezza dei resoconti di guerra e delle atrocità umane che Martha Gellhorn consegnò alla storia con i suoi reportage giornalistici dai campi di battaglia. Quello fra Martha ed Ernest fu sì un grande amore, ma rivelò a Martha prima che a noi la verità di un rapporto tra i sessi che, nonostante la grandezza letteraria di uno dei maggiori scrittori americani, crollò sotto i colpi di un maschilismo esercitato e riconosciuto, di una rivalità professionale scorretta e sessista con cui Martha dovette fare i conti, a caro prezzo, per farsi strada nel lavoro e per farsi amare senza rinunciare alla propria indipendenza e a quella che sentiva come una missione: “andare a vedere”. Il matrimonio si concluse appena cinque anni dopo, nel 1945; fra tutte e quattro le mogli di Hemingway, Martha fu l’unica a lasciarlo, «a mandarlo al diavolo», come dice Lilli senza troppi giri di parole.
«L’educazione sentimentale di Martha Gellhorn rivela la stessa determinazione che troviamo nella sua educazione giornalistica: quella di farsi strada come donna senza curarsi dei pregiudizi e delle limitazioni del suo tempo. Non conta ciò che gli altri si aspettano da lei, solo ciò che lei si aspetta da se stessa. E se ci ispira ancora è perché si sente, in ogni passo che ha compiuto, la fatica, che è quella di ognuna di noi.»
Lilli Gruber e la riflessione sulla professione del reporter di guerra
Sono le parole, d’altronde, a connotare lo stile, il rigore e l’efficacia di una professione, quella giornalistica, su cui ragiona Lilli Gruber in queste pagine che, sullo sfondo dei principali eventi della storia del Novecento, ripercorre la biografia della Gellhorn mentre mette a fuoco cosa significa fare reportage di guerra oggi e come è cambiato rispetto al passato. È una narrazione onesta e sincera, in prima persona, che si confronta con la figura di Martha così come, in un dialogo a più voci sullo stato di salute dell’informazione oggi nel mondo, con altri grandi inviati di guerra colleghi e amici: Angela Rodicio e Dina Neretliak, che hanno vissuto entrambe l’inferno dei Balcani; Jonathan Randal, che conobbe Martha nel 1996 in Vietnam; Alberto Negri, inviato del “Sole 24Ore” dal 1987 al 2017; Jacques Charmelot, capo dell’ufficio dell’Agence France-Presse nel 1991 a Baghdad dove lo incontrò Lilli, nove anni prima di sposarlo.
Dice Dina di Martha,
«Gellhorn condivide con molte giornaliste con cui lei ha lavorato la capacità di cogliere la brutalità e l’inutilità di ogni conflitto: “Alcune capivano perfettamente che la guerra, civile o meno, può scoppiare ovunque, in qualsiasi momento”. E, come Martha, avevano un occhio attento alle sofferenze della popolazione mentre i loro colleghi a Sarajevo “dedicavano un sacco di tempo a spiegare il ruolo e le strategie delle forze dell’Onu, come se fosse quello l’aspetto più importante, e le persone comuni quasi non esistessero”.»
La grandezza di Martha Gellhorn, secondo Lilli Gruber, sta anche e soprattutto nell’essere stata la prima ad aver raccontato i conflitti con la voce dei più deboli, di aver dato parola a quelli che non hanno voce o che sono i primi a perderla in guerra. «Ciò che era nuovo e profetico della guerra in Spagna era la vita dei civili a cui la guerra entrava nelle case», scrisse Martha in uno dei suoi reportage. Continuò a farlo per tutta la vita. Descriverà le devastazioni del napalm sui bambini distesi in letti di fortuna nell’ospedale vicino alla base Usa di Quy Nhon, dopo essere arrivata a Saigon nell’agosto del 1966, a cinquantasette anni, con un incarico dal “Guardian”.
«Dalla Spagna al Vietnam», dice Lilli, «Martha si schiererà sempre contro ogni forma di governo autoritario e antidemocratico», senza paura di denunciare anche i crimini commessi dal proprio paese, gli Usa, come fece nei suoi reportage dal Sud-Est asiatico. «Qualcuno deve dare le notizie. […] Alla fine andai nel Vietnam del Sud perché dovevo capire da sola, dato che nessun altro me lo spiegava, cosa stava accadendo a quel popolo senza voce».
«D’improvviso eravamo enormemente coinvolti in una guerra senza che nessuno avesse fornito spiegazioni che mi sembrassero sensate. Invece di fatti e motivazioni, ci davano proclami e propaganda.»
La verità bisogna cercarla, i fatti vanno resi noti. È questo uno degli insegnamenti più importanti che Martha Gellhorn e libri come La guerra dentropossono ancora trasmettere. Vale la pena ascoltarli. «Noi, che ci siamo trovati anni dopo a raccontare altri conflitti, quella chiarezza morale non l’abbiamo mai avuta», ammette Lilli Gruber. «Già nel corso della carriera di Martha Gellhorn le cose sono cambiate radicalmente e i suoi reportage dal Vietnam parlano senza mezzi termini di un intervento sbagliato e ingiustificabile. Anche nei conflitti che aprono il Ventunesimo secolo, tra cui l’Iraq, era impossibile pensare di stare dalla parte giusta».
«I governi mentono, e il lavoro dei giornalisti è contrastare le bugie con i fatti», sono le parole altrettanto chiare di Jacques Charmelot, nel capitolo che Lilli dedica alla conversazione con il marito.
«Consiglio vivamente a chi voglia esercitare la sua curiosità e intelligenza analitica di intraprendere questo mestiere molto particolare, fatto di contatti, istinto, capacità investigativa. La qualità fondamentale è lo scetticismo: la molla che ti spinge ad andare oltre le apparenze. È proprio come diceva Martha. Il nostro dovere è portare al popolo informazioni verificabili, oggettive. Noi, che crediamo nella democrazia, siamo convinti che il popolo ne farà buon uso.»
Molti anni prima, nel maggio del 1945, Martha aveva raggiunto le truppe statunitensi nel campo di concentramento di Dachau. Nel 1972, in una lettera a un’amica, scriverà: «Dachau mi ha cambiato la vita. Da allora non sono più stata la stessa, non ho più veramente provato speranza, innocenza e gioia». Ma non ci si può arrendere, Lilli Gruber ne è convinta:
«Serve una robusta fibra morale per scrivere sulla perversione assoluta dell’uomo. È il genere di coraggio che contraddistingue i giornalisti migliori. Ti porta nei luoghi della più intensa sofferenza umana, e ti spinge verso il limite estremo della tua esperienza professionale. Un punto in cui ciò che vedi fa apparire insignificante il ruolo che credevi di interpretare. Quando uno di noi arriva a quel punto, ci chiediamo: “C’è niente che le mie parole possano cambiare?”»
Martha Gellhorn, la donna e reporter di guerra che di sé disse, a un certo punto della sua vita, di essere diventata “un registratore che cammina e che ha gli occhi”, di fronte al lager nazista «sente di essere arrivata al capolinea dell’orrore». Ciononostante, ci ricorda ancora una volta Lilli Gruber, «ritiene però che sia dovere del giornalismo continuare a testimoniare. Come le dice un prigioniero di guerra sul volo militare che la conduce via dalla Germania: “Dobbiamo parlare di questa cosa. Dobbiamo parlarne, anche se molti non ci crederanno”».