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L’amnesia familiare di Michela Marzano

Quando si dice “nomen omen”.

Lo dicevano i romani per indicare quel presagio, quel destino che pare legare fatalmente certe persone al proprio nome di battesimo e lo diciamo ancora adesso, un po’ per scherzo un po’ per convinzione.

“Perché mi chiamo così?”. Ce lo chiediamo più o meno tutti nella vita, prima o poi.

«Perché questi nomi non compaiono in nessun altro documento?», è la prima domanda che si fa Michela Marzano quando scopre che il padre, Ferruccio, non si chiama Ferruccio e basta ma “Ferruccio Michele Arturo Vittorio Benito”.

La testa inizia a girarle perché, tra quei cinque nomi registrati sull’atto di nascita di papà

«ci sono pure Vittorio, come Vittorio Emanuele III, e Benito, come Mussolini».

Proprio lei, Michela Marzano, scrittrice e filosofa, registrata all’anagrafe come “Maria”, cresciuta con il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi e tutti quegli altri libri che Einaudi pubblicava nella collana “Letture per la scuola media” e che lei leggeva «via via che uscivano. Mettevo da parte i soldi per la merenda e andavo poi a rifornirmi nella cartolibreria all’angolo tra piazza della Balduina e viale delle Medaglie d’Oro. Nella mia camera da letto, sono diventata socialista, antifascista, resistente. La storia dell’Italia era stata buia, ma papà mi aveva insegnato a essere di sinistra e partigiana: partigiani si nasce e si resta tutta la vita, non è così che si dice oggi?».

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Eppure oggi Michela Marzano, che per quasi cinquant’anni credeva che i fascisti fossero gli altri e che lei non avesse nulla da spartire con loro, proprio lei oggi scopre che suo nonno era un fascista della prima ora.

Michela Marzano interroga la storia e se stessa

Stirpe e vergogna. Due parole come pietre, a scolpire il senso di un’emozione fatta di mille altre emozioni, di una verità tardiva venuta a galla per caso, a dare il titolo al nuovo libro della Marzano, che da quei due nomi, Vittorio e Benito, è partita per un lungo viaggio, fisico e mentale, un andirivieni agitato, teso e atteso tra Parigi, dove abita e insegna all’università, e Campi Salentina, terra pugliese natia dove ripesca l’archivio di famiglia a partire da quella teca che, oltre alle medaglie, ai bottoni, ai nastri e alle fascette, conserva ancora le tessere al Partito nazionale fascista del nonno paterno: il fascista Arturo Marzano, iscritto al P.N.F. il 15/5/1919.

«Nella prima pagina, ci sono le informazioni sul percorso militare e fascista del nonno: Sansepolcrista = no; Squadrista = sì; Marcia su Roma = sì (n° 108702 del brevetto); Sciarpa Littorio = sì; Decorazioni al valor militare = medaglia di bronzo (1917); Ferite e mutilazioni di guerra = sì.»

Parte da lì, dal crollo della convinzione di essere cresciuta in una famiglia di antifascisti, la scoperta di un passato dimenticato, di un oblio, di una “amnesia familiare”, la scrittura di pagine nude e crude su se stessa, sulla sua famiglia e sulla storia probabile e possibile di molte altre famiglie italiane che hanno dimenticato, più o meno inconsciamente, chissà, e di un Paese, l’Italia, che secondo l’autrice non ha mai fatto davvero i conti col proprio passato più controverso.

Stirpe e vergogna non è soltanto un autoritratto, un romanzo, un memoir. È un amalgama di confessioni e insicurezze personali, di dubbi filosofici, di ricostruzione di biografie e alberi genealogici, di amore e di conflitti, di perdono e di severità. Non è la prima volta che scriviamo di donne che scrivono di sé con coraggio. A leggere le quattrocento pagine del volume vien da pensare che ci vuole coraggio a confessare pubblicamente la propria vergogna, a mettere in piazza le più nascoste e remote vicende personali e familiari. I fatti, la verità. Michela Marzano sceglie, decide di rivangare il passato, di dare un senso alla parola “memoria” al di là di ogni ipocrisia personale o collettiva, di scoperchiare la vergogna per quel che scopre e l’addolora, la imbarazza, la trascina in notti insonni a incolpare prima di tutto se stessa.

Stirpe e vergogna è un libro che pone una sfilza d’interrogativi a partire da quello sul narrare, sulla giustezza o meno dello svelare vite altrui.

«Chi scrive lo sa bene che con i romanzi si fanno sempre i conti con se stessi, ci si imbatte nei propri fantasmi, si proiettano le proprie ansie e le proprie vergogne; ma che diritto abbiamo, per farlo, di ispirarci alla vita di chi, non essendoci più, non potrà mai dare la propria versione dei fatti?»

si chiede Michela.

«E mio nonno, allora? Dov’è la sua versione dei fatti? Chi potrà difenderne la memoria, se la nipote l’infanga?», scrive l’autrice mettendo nero su bianco il dubbio di essere dalla parte giusta della storia. «Che cosa immaginavo quando ho iniziato a scrivere le prime pagine di questo libro? Che avrei potuto incastrare tra loro i vari pezzi del puzzle, via via che li rintracciavo, falsificandone magari qualcuno? Chi mi ha dato l’autorizzazione? Oppure volevo assolvere me stessa condannando i miei antenati? Forse mi illudevo di poter capire perché non avessi mai avuto figli attraverso la ricostruzione del mio passato. Sono queste le giustificazioni che mi sono data?».

Michela Marzano interroga la storia e se stessa: il rapporto complicato con l’adorato padre Ferruccio che descrive senza filtri; la maternità mancata che la induce a chiedersi, più volte, ora che è biologicamente troppo tardi, perché non ha avuto figli; l’anoressia e il tentativo di suicidio durante la giovinezza, che l’hanno condotta a vent’anni e più di sedute di psicoanalisi.

«Chi era davvero nonno Arturo? E poi, soprattutto, che legame c’è tra il suo essere stato un fascista della prima ora e le ansie del mio presente?»

Michela Marzano ha la mania delle liste, «lista dei capi d’abbigliamento da lavare, lista delle cose da comprare, lista degli articoli da scrivere, lista dei libri da leggere. Sono fissata: mettere le cose in fila l’una dopo l’altra, giorno per giorno, talvolta anche ora per ora, mi rassicura». Cresciuta circondata dalle regole e dalle scadenze, Michela Marzano di sé dice di non aver «mai potuto vivere una giornata senza il peso schiacciante del “devo”, “non posso”, “dài”, “ancora uno sforzo”». Ma poi dice anche un’altra cosa:

«Mi nascondo dietro la mia ossessione per le liste e per l’ordine, ed evito di guardare in faccia la realtà. Evito soprattutto di cercare il minimo comun denominatore che c’è dietro tutte le scuse che ho appena messo in fila, anche se la strategia per nascondere la mia responsabilità, pure adesso, è esattamente la stessa: la fuga. Fuggo da quando sono piccola. Fuggo dal mio passato e da mio padre. Fuggo dall’Italia e dalla mia madre lingua. Fuggo dalla colpa. Ma qual è esattamente la mia colpa?»

Mentre fruga tra i documenti di famiglia, discute col padre, scrive il libro, si confronta con il marito Jacques, Michela, moglie figlia sorella zia, ragiona sulla propria, di vita:

«Sono dovuti passare ancora due anni prima che la smettessi di prendermi in giro da sola e di mentirmi. Due anni esatti. Fino alla nascita di Jacopo, nell’agosto del 2019. Come se fosse quello il punto di non ritorno e mi trovassi di fronte a un muro: se mio fratello, che è gay, era riuscito a diventare padre, perché io non ero stata capace di avere un figlio?»

 

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Nel frattempo, scoppia la pandemia.

Michela Marzano è a Parigi e non può tornare a frugare nella cantina di Campi, dove sa che potrebbe trovare molte risposte ai misteri della vita del nonno, della mancanza di memoria e dei silenzi del padre, quella memoria «con cui fare i conti pure quando questi maledetti conti non tornano». Durante il lockdown non riesce più a lavorare.

«È come se fossi precipitata in un buco nero, in uno spazio-tempo immobile, in cui nessuna parola riesce a consolarmi. Io, che ho sempre detto che le parole ci aiutano a mettere ordine nel mondo e a contenere la sofferenza, affogo nel disordine. E, proprio mentre cerco di ricostruire gli anni più bui del fascismo e il disastro della Seconda guerra mondiale, navigo a vista nel caos di una pandemia che stravolge ogni quadro concettuale.»

Intanto il passato continua a riaffiorare.

«Quando non lo si rielabora, il passato ci agisce», scrive Michela. «Se non si decide di farci i conti, lo si tramanda di generazione in generazione. Quando ci si illude di averlo rimosso, riaffiora. E prima o poi c’è chi, il conto, deve pagarlo».

Michela continua a scartabellare vecchi registri, epistolari, dossier, cartellette sottratte all’umidità della cantina di casa Campi.

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«Il 1924 è un anno drammatico per l’Italia», scrive Marzano nelle prime righe della seconda parte del libro – suddiviso in quattro parti: Il disonore, La colpa, L’amnesia, Il riscatto. «Dopo lo scioglimento anticipato delle Camere il 25 gennaio, le violenze si moltiplicano in tutto il Paese. Gli squadristi incrementano le spedizioni punitive», prosegue Michela.

«È in quello stesso periodo che mio nonno diventa pretore a San Nicandro del Gargano, una piccola cittadina conosciuta per essere stata all’inizio del Novecento uno dei centri della lotta di classe, sotto la guida di personaggi eminenti come Giuseppe e Domenico Fioritto».

Arturo si era laureato in Giurisprudenza nel 1919 e nel 1922 era diventato magistrato, prestando giuramento a Vittorio Emanuele III.

«Il 10 giugno, dopo il j’accuse in Parlamento, Giacomo Matteotti viene rapito, e il suo cadavere verrà ritrovato il 16 agosto nella Macchia della Quartarella, a diciotto chilometri da Roma. Arturo è preoccupato dalla paura e dal disinganno che si respirano un po’ ovunque. Teme che gli antifascisti, sfruttando il malcontento generale, provino a riorganizzarsi e a incitare alla rivolta».

Il 20 luglio 1924, Arturo convoca il maresciallo dei carabinieri di San Nicandro.

«È convinto che, in seguito al caso Matteotti, la popolazione si stia ringalluzzendo e sia necessario correre subito ai ripari. “Anarchici, sovversivi e antifascisti esplodono in manifestazioni pubbliche e nauseanti di ostilità al fascismo e al regime” dice fissando il maresciallo che impallidisce».

Il 2 agosto, «il maresciallo arresta una banda di otto contadini e contadine che, rientrando la sera dai campi, sulla via di Torre Miletto, stanno cantando Bandiera rossa. Si tratta di un gruppo di ragazzi e ragazze, sei dei quali minorenni. Ma mio nonno non esita nemmeno un istante, e li traduce a giudizio per direttissima». Due giorni dopo, il 4 agosto, dichiarandoli colpevoli di “grida sediziose”, li condanna tutti al massimo della pena ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge di pubblica sicurezza.

«Il dado è tratto: mio nonno è il primo pretore, in Italia, a condannare al carcere un gruppo di persone solo perché cantavano Bandiera rossa.»

L’ultimo capitolo de La colpa è datato 25 aprile 2020.

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«È la prima volta che mi accade di vivere il giorno della Liberazione con imbarazzo. È la prima volta, da che ho memoria, che non mi sento con la coscienza a posto. Anch’io vorrei andare sui social e scrivere con orgoglio e fierezza: #iorestolibera – perché ci credo, ci ho sempre creduto, e allora perché non dovrei scriverlo, perché non dovrei cantare anch’io dal mio balcone Bella ciao, #bellaciaodaibalconi visto che in piazza, quest’anno, non ci si può andare? Ma quest’anno faccio fatica. Quest’anno ho il magone dentro.»

Michela Marzano sta scrivendo da Parigi, le manca la sua famiglia ma in Italia non può tornare.

«Il mio passato non è quello di chi ha avuto nonni o zii o genitori partigiani. Io, a differenza loro, non sono nata partigiana. Ma ci si nasce davvero? È un fatto di natura? E chi non ci è nato che fa? Chi lo è diventato più tardi è meno partigiano di chi ci nasce o lo eredita dai nonni? Partigiano nel senso di libero, ovviamente. Libero e pronto a tutto pur di restarlo. Visto che è questo che ci rende umani: la scelta della libertà e della sua difesa, con il prezzo da pagare che c’è sempre quando si decide di essere liberi. Perché poi è questo che troppo di frequente si omette: il prezzo della libertà».