Si dice che leggere è un po’ come viaggiare ed è quel che succede con Milano in 10 passeggiate, una guida per attraversarla «a piedi e con la mente», come recita la quarta di copertina del libro appena pubblicato da Bur Rizzoli. L’autore è Andrea Kerbaker, scrittore, collezionista, fondatore della Kasa dei Libri che a Milano vive da una vita intera. Città dai mille volti, ogni quartiere un’identità, ogni piazza e cortile uno spunto letterario, ogni palazzo una storia d’altri tempi. Perché Milan l’è un gran Milan e lo sa bene Kerbaker, che in poco meno di duecento pagine stampate in una brossura leggera e morbida accompagna lungo dieci passeggiate i milanesi che quest’estate resteranno in città e tutti quanti faranno vacanza nel nostro Bel Paese, noi campioni d’Europa.
«La città dove si sviluppano le passeggiate è la somma di cento, mille storie diverse», avverte Kerbaker nell’introduzione del libro ideato «poco prima della chiusura del mondo per la pandemia, e scritto in parte prima e in parte durante quella fase».
Una città da scoprire a piedi: ecco la Milano d’autore
“Milano d’autore” è uno dei mille volti che incontriamo nella prima passeggiata con partenza da via Keplero, famosa per l’infernale rogo ritratto in L’incendio di via Keplero da Carlo Emilio Gadda, che vien voglia di rileggere grazie a Kerbaker, che da lì ci porta in via Solferino dove ha tuttora sede il “Corriere della Sera” e dove lavorarono Eugenio Montale e Dino Buzzati, fino a una piccola panca di via Marina, «forse il luogo più poetico della città», suggerisce Kerbaker, «visto che ci si incontrarono Giuseppe Parini e Ugo Foscolo». Percorsi letterari noti e meno noti ma comunque imperdibili: in fondo a piazza Belgioioso c’è La Casa del Manzoni, alla Scala George Byron «incontra le personalità più significative del romanticismo italiano» mentre Stendhal, altro noto frequentatore dei palchi scaligeri, scriverà in Vita di Henri Brulard che «per me questa città è diventata il più bel posto del mondo». Ernest Hemingway, ferito sul fronte del Piave nella Prima guerra mondiale, verrà curato nell’ospedale della Croce Rossa americana nei pressi di via Armonari, dove brilla la targa a lui dedicata. Più avanti, davanti al Castello Sforzesco, si affaccia l’appartamento dove abitò Umberto Eco, che non era milanese ma che a Milano visse fino alla fine circondato da migliaia di testi antichi. «I più rari, incunaboli, manoscritti, libri a stampa di quattro o cinquecento anni fa, stavano in uno studio appartato, i mobili in legno antico, le tapparelle abbassate e il riscaldamento spento. I libri antichi, infatti, amano star così, al buio, facendosi compagnia mentre rievocano le loro storie centenarie», scrive Kerbaker, che ci racconta di un’altra biblioteca, quella di Francesco Petrarca in piazza Sant’Ambrogio, dove il poeta compose parte del Canzoniere.
«Noi ci fermiamo qui, di fronte alla piccola lapide, a immaginare come poteva essere la casetta di studio dove il Petrarca scriveva, leggeva e riceveva visite a getto continuo. Tra le tante, quella di un prosatore toscano che in quegli anni si accingeva a metter mano a una famosa raccolta di racconti. Lui, Giovanni Boccaccio, in un incontro che avviene nel marzo del 1359 e fa ripartire un’amicizia che proprio il soggiorno a Milano aveva messo in dubbio: Boccaccio non capiva perché scegliere una città sotto il predominio di un arcivescovo come Giovanni Visconti, e non in un libero comune.»
La chiesa di Sant’Ambrogio è il punto di ritrovo per la seconda passeggiata, nel capitolo dedicato a «quelli che ‘A-Milano-non-c’è-niente-da-vedere’». Oltre alla basilica, a testimoniare l’importanza di Milano come centro religioso della romanità, poco più in là c’è l’università Cattolica con i suoi due chiostri che secondo Kerbaker val la pena percorrere, «con colonne slanciatissime, davvero imponenti, anche grazie al lavoro di Giovanni Muzio e, successivamente, al restauro postbellico di Piero Portaluppi, architetto non troppo conosciuto, ma firma primaria del Novecento in tutta Milano», che difatti incontreremo di nuovo nella terza passeggiata. Ora però ci dirigiamo a Santa Maria delle Grazie, «forse quella che più riassume il concetto di milanesità, di bellezza discreta», dice Kerbaker, che ci dà un consiglio preziosissimo: «Dei quindici minuti che vi lasciano per il vostro turno di visita, dedicatene un paio all’affresco che sta sulla parete di fronte all’Ultima cena. È una Crocifissione di Donato Montorfano, pittore quattrocentesco di famiglia di artisti, di cui è rimasto ben poco. La sua è un’opera monumentale quanto la dirimpettaia, bellissima, e nessuno la degna mai di uno sguardo. Se l’artista fosse stato più accorto, non avrebbe mai scelto di affrescare la parete a specchio di uno dei capolavori dell’arte. Ma tant’è, quindi se gli date un’occhiata almeno lo risarcite della sua tremenda ingenuità.»
Altri due consigli che forse non troverete in altre guide: il primo è San Maurizio al Monastero Maggiore, «una facciata di marmo bianco bella, senza dubbio, ma abbastanza anonima», all’angolo con via Luini.
«Ma quando sei all’interno, appena il tempo di abituarti al cambio di luce e rischi una sindrome di Stendhal per l’accumulo di bellezza. Una sensazione che ti aggredisce da ogni parte, letteralmente.»
Il secondo è una chiesa in via Torino, «una facciata neorinascimentale come tante, senz’arte né parte – non ha proprio niente che possa davvero incuriosire o invogliare all’ingresso». E invece si tratta di un vero capolavoro dovuto al Bramante:
«La prima cosa che colpisce è la dimensione. La visita sarebbe giustificata già solo da questo; ma il vero motivo è invece una finzione, un capolavoro assoluto che la rende unica al mondo. Anche questa è una conseguenza dello spazio limitato: quando si deve procedere alla costruzione dell’abside, la presenza di una via alle spalle non consente di andare più indietro di un metro. Da quel genio che è, Bramante non fa una piega: utilizza quel limitato spazio esistente per creare un gioco di affreschi che dia l’illusione della profondità. L’esito, stupefacente, è che da lontano chiunque percepisce una curva profonda una decina di metri, e non si accorge dell’inganno fino a che non si avvicina.»
Sarebbe un peccato perdersi uno tra i più grandi esempi mondiali di trompe-l’oeil prima di giungere in piazza Duomo, «una giungla di aggraziate guglie, luccicanti nella luce ambrata del sole», scrisse Mark Twain in visita in Italia nel 1867.
Milano e l’edilizia pubblica fascista
Da piazza San Sepolcro ci incamminiamo per la terza passeggiata dedicata all’edilizia pubblica fascista, presente in città «forse più di quanto si sappia», nota Kerbaker guidandoci dalla Torre Littoria a piazza Diaz e da qui fino al «fascistissimo» Palazzo di Giustizia. In piazza San Babila si erge il primo grattacielo di Milano, costruito per la Snia Viscosa, noto come il “rubanuvole”, mentre se si prosegue per corso Venezia si arriva a Villa Necchi Campiglio, visitarla «ne vale proprio la pena», conferma Kerbaker. Camminando per via Palestro «potremo quindi riflettere sul sempiterno adagio Nemo propheta in patria, abbastanza adatto alla strada, visto che lungo questa cancellata nel giugno del 1977 venne gambizzato Indro Montanelli», mentre andava alla redazione del “Giornale”, a Palazzo dei Giornali, costruito su commissione diretta di Mussolini. «La malinconia dell’insieme non viene edulcorata dai grandi rilievi in facciata di Mario Sironi, che si distinguono appena, bianchi su bianco come sono», scrive Kerbaker alla fine di questa passeggiata, che termina alla Stazione Centrale, «enorme, barocca, nata già vecchia».
Lì vicino sta il grattacielo Pirelli: «A parte la sua incontestabile bellezza, o forse proprio per questo, è un grande personaggio», scrisse Dino Buzzati nel 1970. Da queste parole prende avvio la quarta passeggiata, “La città che sale” negli anni immortalati dal fotografo Uliano Lucas nel celebre scatto Immigrato sardo davanti al grattacielo Pirelli, che “sbarluscenta”, come dicono i milanesi, mentre un altro simbolo della ricostruzione è la Torre Galfa, «tanto da diventare il bersaglio totemico di uno degli scrittori più arrabbiati del secolo scorso, Luciano Bianciardi. Fu lui infatti a dare la maggiore popolarità culturale all’edificio, che il suo omonimo Luciano, protagonista della sua Vita agra, voleva far saltare in aria con un attentato». Lungo via Pola si staglia Palazzo Lombardia, «coronamento del sogno esagerato di una giunta che si credeva onnipotente», scrive Kerbaker. «Il palazzo in sé non è affatto brutto, anzi»; tutti gli architetti del mondo «sono ammirati dalle sue caratteristiche tecniche e urbanistiche. Tuttavia i milanesi non lo hanno adottato; non che lo vogliano far saltare per aria come Bianciardi, ma semplicemente lo ignorano».
Mentre si sale verso piazza Aulenti «conviene fermarsi a guardare le due torri del Bosco Verticale», che ha ricevuto «il più prestigioso riconoscimento internazionale, assegnato annualmente a Chicago alla migliore opera architettonica del mondo». In questo percorso gli edifici più maestosi sono associati ad altrettanto nomi noti: Unicredit, Fondazione Feltrinelli, Gio Ponti, Branca. «Se si va sul sito web di CityLife», annota Kerbaker,
«ci si fa l’idea di un luogo da film, magico, con luci coordinate e scenari che paiono presi direttamente dal set di Blade Runner.»
Milano e il crimine: passeggiate tra delitti esemplari
È decisamente uno scenario da film quello in cui ci inoltriamo con la quinta passeggiata, “Delitti esemplari”. Per non togliervi il gusto dell’effetto a sorpresa, non vi sveleremo nulla di questo percorso attraverso il crimine che taglia in due, tra vittime e carnefici, la città ripercorrendo i principali fatti di sangue che occuparono le cronache della città tra Ottocento e Novecento. Vi diremo soltanto che il capitolo si apre con la sparatoria della banda Cavallero in Largo Zandonai, nel settembre del 1967, e si conclude con le parole di Dino Buzzati, una sera di fine novembre del 1946:
«Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue.»
«Noi non crediamo che il teatro sia un’abitudine mondana o un astratto omaggio alla cultura. Non vogliamo offrire soltanto uno svago né una contemplazione oziosa e passiva: amiamo il riposo, non l’ozio; la festa, non il passatempo […] Il teatro resta quel che è stato nelle intenzioni profonde dei suoi creatori: il luogo dove una comunità, liberamente riunita, si rivela a se stessa; il luogo dove una comunità ascolta una parola da accettare o da respingere. Perché, anche quando gli spettatori non se ne avvedono, questa parola li aiuterà a decidere nella loro vita individuale e nella loro responsabilità sociale.»
È un passaggio del programma della prima stagione del Piccolo, fondato nel 1947 da Giorgio Strehler e Paolo Grassi, «talmente convinti e motivati», scrive Kerbaker, «da passare sopra all’orrenda storia del posto, che fino a poco prima era stato occupato dai torturatori fascisti; e le stanzette che diverranno camerini sono le vecchie celle sporche del sangue delle loro vittime. Ma la spinta ideale è più forte anche di quell’orrore; anzi, proprio perché è reduce anche da quello, Milano ha bisogno di ripartire da lì con fondamenta nuovissime». La passeggiata numero 6, “La vocazione teatrale”, è una delle più suggestive. La partenza è «mitica», annuncia l’autore; inizia in largo Marinai d’Italia, alla Palazzina Liberty oggi intitolata a Dario Fo e Franca Rame. Narra di una Milano dove Luigi Pirandello rappresentò alcuni suoi capolavori in prima mondiale e dove Bertolt Brecht arrivò apposta da Berlino per assistere a L’opera da tre soldi in scena al Piccolo. Teatri storici come il Carcano, dove si tennero le prime di opere di Bellini e Donizetti e dove suonò Paganini o come il settecentesco Lirico, affollato di tantissimi milanesi per la Tempesta di Shakespeare diretta da Strehler nel 1978, l’anno del rapimento di Aldo Moro, «una circostanza drammatica», ricorda Kerbaker, «che rende incandescente il clima delle prove».
“Con i piedi di piombo”, passeggiata numero 7, iniziamo un percorso diverso dagli altri, proveniente da un altro libro di Andrea Kerbaker, La rimozione,
«dedicato a Giuseppe Tavecchio, un pensionato che fu ucciso per errore davanti alla Scala durante gli anni di piombo, colpito da un lacrimogeno sparato dalla polizia nel corso di scontri di piazza. Un signore che, non essendo inquadrato in nessuna parte politica, è stato dimenticato da tutti – e infatti dove è morto non c’è neppure una targa. Da lì l’idea di un percorso tra le lapidi degli anni di piombo, che, a costo di una lieve incoerenza, ho preferito includere così, senza modifiche, perché così nasceva e così aveva senso.»
Da allora quel libro, spiega l’autore, «ha circolato anche negli uffici del Comune, dove si sono appassionati alla vicenda e hanno deciso di rimediare alla lampante dimenticanza. Oggi una lapide per Tavecchio è bell’e pronta, e tra breve verrà posizionata su uno stabile in via Verdi, dove già sarebbe se non ci fosse stato l’anno di pandemia. Un elogio al Comune, anche per il segnale incoraggiante mandato a chi si ostina a pensare che ogni tanto i libri possano perfino servire a qualche cosa».
Convinti pure noi che i libri servano, ci avviciniamo alla conclusione della nostra vacanza meneghina, con gli ultimi percorsi proposti. Si riparte in compagnia nientemeno che di Alessandro Manzoni e dei Promessi sposi, ai cui tempi
«l’enorme edificio del lazzaretto esisteva ancora; viene demolito quasi totalmente più o meno in coincidenza con la scomparsa di Manzoni, morto nel 1873. Oggi quindi di tutta quella sterminata costruzione non rimane praticamente nulla: restano la via che ne porta il nome e, parallela, quella dedicata a Ludovico Settala, importante medico che curò anche la peste manzoniana»
scrive Kerbaker. Se si procede verso Porta Venezia, «quella che ai tempi del Manzoni si chiamava Orientale», bibliomani e bibliofili saranno subito appagati da «un paio di piacevoli librerie antiquarie in via Tadino e di una delle maggiori sedi cittadine del Libraccio, in via Vittorio Veneto all’angolo con Panfilo Castaldi. Una presenza che sicuramente non dispiaceva a uno degli abitanti novecenteschi della via San Gregorio, Giovanni Raboni, che lì era nato», racconta Kerbaker, dandoci un altro dei suoi preziosi consigli una volta arrivati all’Ambrosiana, «tanto biblioteca quanto pinacoteca. La prima è uno dei molti posti poco conosciuti di questa città, surclassata dalla seconda, che custodisce alcuni capolavori senza tempo, come la Canestra di frutta del Caravaggio o il cartone della Scuola di Atene di Raffaello». Uno per tutti, tra quelli custoditi dalla biblioteca,
«il manoscritto delle opere di Virgilio con prima pagina miniata da Simone Martini su commissione di Francesco Petrarca. Un libro spettacolare, dove Petrarca annota anche la data della morte di Laura, in un appunto latino che da secoli studiano generazioni di appassionati». Napoleone se lo portò a Parigi ma a riportarlo indietro ci pensò Canova, «indefesso recuperatore di opere d’arte sottratte ai musei italiani dalle truppe napoleoniche. Insomma, ditemi voi dove trovereste mai un libro che mette insieme Virgilio, Petrarca, Laura, Simone Martini, Napoleone e Canova: il record mondiale delle associazioni.»
“All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne” è la passeggiata numero 9:
«Quando ho conosciuto mia moglie, cent’anni fa, il primo posto dove l’ho portata a fare una passeggiata è stato il Cimitero Monumentale»
confessa Andrea Kerbaker. «Non ricordo bene i motivi di un invito così anomalo; probabilmente, visto che lei, straniera, era già in Italia da qualche mese, avrò cercato di trovare un luogo dove nessuno l’avesse accompagnata». E così accompagna pure noi evitando il famedio, «pomposo, troppo», per rendere invece omaggio alle tombe di personalità degli anni recenti dalle provenienze più diverse:
«Due poeti, Alda Merini e Giovanni Raboni, un disegnatore come Guido Crepax, il designer Bob Noorda, olandese di nascita ma milanese per scelta, il centravanti dell’Inter Peppino Meazza e il pugile Duilio Loi, l’ex sindaco Aldo Aniasi. Insieme a loro tanti, tanti uomini e donne di spettacolo: Da- rio Fo “giullare e pittore” con Franca Rame, in un tripudio di fiori colorati e foto che mettono allegria, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, accompagnati dal grande direttore artistico del Piccolo, Paolo Grassi, che li sorveglia qui come faceva nel suo teatro. C’è anche qualche personaggio dell’Ottocento: Delio Tessa, eccellente poeta dialettale, il librettista di Verdi Francesco Maria Piave, il pittore più significativo del secolo, Francesco Hayez.»
Tutta la Milano che vuoi
Altro giro da fare è quello delle edicole delle famiglie imprenditoriali della città, «soprattutto quelle che hanno fondato le loro imprese più o meno in contemporanea con il cimitero, nel periodo successivo all’Unità d’Italia: nomi che si possono associare a vari edifici o manufatti ben presenti tra le vie di Milano»: i Treccani, i Crespi, i Bocconi e via dicendo. Al Cimitero monumentale riposa anche don Giussani, fondatore di Comunione e Liberazione, «davanti a cui c’è sempre gran messe di fiori».
Siamo arrivati alla fine, all’ultima passeggiata, “Tutta la mia città”:
«È successo il 3 di maggio dell’anno scorso, domenica, verso le undici del mattino. Come tutti i giorni precedenti, ero uscito a quell’ora per andare a fare due passi, comperare il giornale, a volte qualcosa da mangiare. Avanzavo lungo il corso Magenta, e mi sono subito accorto che qualcosa era cambiato. Il giorno dopo finiva la clausura selvaggia, quella del #stateacasa.»