Nell’intervista, imperdibile, che Oriana Fallaci fece a Mary Quant col suo solito piglio deciso, incalzante, provocatorio che ha fatto scuola a generazioni di giornaliste e giornalisti venuti dopo di lei (senza però che nessuno sia ancora riuscito a rimpiazzarla perché l’Oriana rimane unica e insostituibile, è un dato di fatto), la giovane stilista britannica le disse, tra le tante risposte altrettanto provocatorie e acute, questa cosa: «Io non sono aristocratica affatto, io sono figlia di due professori gallesi, mio padre insegna storia e letteratura, mia madre insegna chimica e fisica. Io l’idea di lavorare l’ho sempre avuta, i miei genitori m’hanno sempre detto che una donna deve guadagnarsi la vita da sé. E lavorare per me ha sempre significato occuparsi di moda perché ho sempre pensato che la moda non sia qualcosa di frivolo ma un fenomeno sociale assai serio, come la politica». Erano gli anni Cinquanta del secolo scorso, quando la Fallaci, inviata in America dal direttore de “L’Europeo” Arrigo Benedetti, finì in un’aula di tribunale davanti a un giudice per colpa di alcuni centimetri di stoffa tagliata all’orlo di una gonna, gli stessi pochi centimetri per cui le minigonne di Mary Quant diventarono uno dei simboli della swinging London, di una nuova epoca.
«Eppure è New York che ha imposto le gonne corte in modo così clamoroso, preoccupante, scoraggiante. I negozi traboccano, migliaia milioni di vestiti-Quant. E le strade anche», la incalza la giornalista. «È vero, la grande vittoria l’ho ottenuta in America dove la moda non è mai stata un privilegio di pochi con molti soldi ma un diritto di molti con pochi soldi. In America si sa produrre in massa ogni vestito per ogni possibile forma umana: grassa, magra, alta, bassa, giovane, vecchia», ribatte la Quant. «Bisogna metterci in testa che non viviamo più in un’epoca di moda esclusiva, di couturiers, di abiti cuciti a mano. Viviamo in un’epoca di produzione in massa, di vendita in massa: la moda è ormai un fenomeno di massa e va prodotta come le automobili in serie, i televisori, le scarpe. Le donne lavorano ed hanno più bisogno di vestiti, meno tempo per farsi i vestiti, non possono comprare la stoffa e andar dalla sarta e scegliere il modello e provarlo e riprovarlo… Ecco una cosa che nemmeno un genio come Chanel, nemmeno un genio come Courrèges son riusciti a capire».
Oriana Fallaci non passerà mai di moda
Ebbene, se mai qualcuno avesse un minimo dubbio, rileggere Oriana Fallaci non passerà mai di moda, ed ebbe ragione Mary Quant a esser sicura che neppure la minigonna sarebbe passata di moda. Processo alla minigonna, in libreria a metà febbraio per Rizzoli con la prefazione di Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica delle collezioni donna Dior, raccoglie una selezione degli articoli scritti dal 1955 al 1966 per “L’Europeo” dalla giornalista, che in pagine memorabili mette a nudo i grandi stilisti dell’epoca, Christian Dior ed Emilio Pucci, Coco Chanel e Yves Saint-Laurent, Roberto Capucci e Mary Quant, appunto, intuendo il potenziale politico delle dichiarazioni dei grandi nomi della sartoria.
Oriana Fallaci ha ispirato non soltanto generazioni di giornaliste, ma anche le donne del proprio tempo che leggevano in diretta i suoi articoli, così come le figlie e le nipoti. È un dato di fatto, così come i suoi libri, tradotti in tutto il mondo, rimangono tra i longseller più venduti.
Arriva su Rai 1 Miss Fallaci, la serie tv che racconta la vita di Oriana Fallaci
Non stupisce allora che Rai 1 stia per lanciare Miss Fallaci, la serie televisiva che, prodotta da Paramount Television International Studios e Minerva Pictures in associazione con Redstring, è diretta da Luca Ribuoli, Giacomo Martelli e Alessandra Gonnella con Miriam Leone nel ruolo della protagonista, a interpretare Oriana Fallaci in un racconto che si snoda proprio tra gli anni Cinquanta e Sessanta, tra la Dolce Vita italiana e lo star system americano, scenari epocali fotografati e indagati dalla giornalista quando si divideva tra Roma, New York e Los Angeles per raccontare la “fabbrica dei divi”. Le sue cronache direttamente dalle case hollywoodiane degli attori, dall’interno degli studios cinematografici, dalle feste esclusive a cui partecipava sono raccolte da Bur ne I sette peccati di Hollywood, pubblicato per la prima volta da Longanesi nel 1958, un’inchiesta su un mondo, su «questa pazzesca macchina di illusioni e di quattrini», che sopravvive con i suoi miti e i suoi peccati a ogni era.
«Oriana ha avuto una vita esemplare che vale la pena di studiare», dice Miriam Leone a Francesca Ragazzi, che l’ha intervistata per “Vogue”. Nella serie tv in onda su Rai 1 dal 18 febbraio «Oriana è una giovanissima giornalista de L’Europeo che viene inviata a L.A. per raccontare vizi e manie dei divi dell’epoca, ai quali toglie la maschera, svelandone l’aspetto più umano; oggi con i social riusciamo a vedere il dietro le quinte, ma all’epoca il “backstage” non c’era, anzi, andava nascosto», sostiene l’attrice, ospite di Sanremo 2025 come co-conduttrice della terza serata. Lo stesso festival di cui raccontò Oriana Fallaci nel primo capitolo di Processo alla minigonna intitolato La donna del 1955 andrà in mare vestita. Sanremo, marzo 1955, quando il Casinò di Sanremo ospitò la prima rassegna di moda balneare italiana. Il capitolo, quasi inutile dire affilato come tutto il libro, inizia così:
«Nel marzo 1955, il Casinò di Sanremo ospita la prima rassegna di moda balneare italiana. I couturiers discussero a lungo sull’opportunità di far sfilare, o no, l’indossatrice in bikini. “E se ci arrestano?” chiedeva un tale considerando la rigidezza dell’onorevole Scalfaro di fronte alle nudità femminili. Altri, invece, sostenevano la necessità di un gesto coraggioso. Anche un bikini, dicevano con enfasi, può diventare simbolo di libertà da una assurda imposizione.»
Un anno dopo, nel gennaio del 1956, a ventisette anni Oriana Fallaci vola per la prima a Hollywood, dove insegue il filo dei sette peccati capitali per dipingere quello che Orson Welles descrive come «un album di originali ritratti in primo piano», nell’introduzione che firmò nel 1958 per I sette peccati di Hollywood. «Oriana Fallaci», sono le sue parole, «ha un acuto occhio toscano e fu davvero felice la decisione di fissarlo per qualche tempo sul nostro caravanserraglio di Hollywood».
Scritto più di cinquant’anni fa «sembra nato ieri, uscito da una penna fresca e molto contemporanea», nota nella prefazione a I sette peccati di Hollywood la giornalista Maria Luisa Agnese, che lavorò con Oriana al “Corriere della Sera”. «Si era messa l’elmetto per andare fra i grandi di Hollywood, ne aveva incontrati parecchi e conquistati tutti, a cominciare da Orson Welles che la incrocia a una festa molto esclusiva, e, incuriosito dal tocco originale di quella Mata Hari che viene dall’Italia e “che sa nascondere la giornalista più agguerrita sotto la più ingannevole delle maschere femminili”, scriverà per lei la prefazione che apre il libro» e che, aggiungiamo noi, è un’altra delle tante ragioni per riprendere in mano questi testi di Oriana Fallaci. Memorabili, tra le altre, le pagine in cui la Fallaci racconta come e perché non riuscì mai a intervistare Marylin Monroe: «Con un vero colpo di genio decise di non occultare la vergogna di quel fallimento, ma di narrarla con tutti i particolari e le umiliazioni del caso», scrive Agnese, «compreso il dileggio dei colleghi, tanto che la cronaca di un incontro mancato – mai piacevole da ammettere per un giornalista – in mano sua diventa resoconto epico di una sconfitta dove l’umiliazione si mischia alla autoesaltazione».
D’altronde, basta leggere le righe iniziali del Preludio di Processo alla minigonna per convincersi dell’assoluta forza incisiva della scrittura di Oriana Fallaci:
«Chi dice Hollywood pensa subito a Marilyn Monroe. Ma è inutile che cerchiate in questo libretto un ritrattino o una intervista con Marilyn Monroe. Non c’è.»
Tra un viaggio e l’altro, nel 1962 Miss Fallaci, la giovane Oriana interpretata da Miriam Leone nella fiction della Rai, scrive il suo primo romanzo, Penelope alla guerra, dove la stessa potenza inconfondibile della sua scrittura, sempre autobiografica, crea una protagonista femminile libera e ribelle, Giovanna detta Giò, promettente autrice di sceneggiature inviata a New York da un produttore cinematografico alla fine degli anni Cinquanta. È un altro arguto affresco di un’America in conflitto con se stessa, ispirata dalla promessa di poter realizzare tutti i sogni ma imbrigliata dalle convenzioni imposte dalla società.
«Vorrei riuscire a dir questo nella storia che scriverò: che, qui, il cielo è in terra. E la gente come me si sente nascere una seconda volta», narra Giò nelle prime pagine di Penelope alla guerra.
«Quanto agli americani, essi sono ricchi: è ben vero. Non v’è desiderio che si possano impedire, spreco che si possano proibire, fatica che si possano risparmiare. Per i desideri più assurdi i negozi offrono formiche fritte e cannoni in disuso, orchidee e castelli smontati, scarpe di zibellino ed elefanti. Per gli sprechi più inutili i marciapiedi si riempiono di poltrone intatte, materassi senza uno strappo, bistecche appena smozzicate. Per le fatiche meno evitabili, le vetrine ti suggeriscono lettere già scritte, guanciali che ti addormentano, macchine per lavarti: tuttavia il loro cervello non sembra soffrirne. D’altra parte, ho sempre pensato che il cervello sia un muscolo da nutrire come gli altri muscoli e che con la fame funzioni assai meno.»
Insomma, per concludere, come scrive Concita De Gregorio nella prefazione al romanzo, in libreria per Bur, «da lei abbiamo tutti imparato in via definitiva e senza possibilità di equivoco né di ripensamento che non esiste – in questo tempo saturo di immagini e di notizie, in questo tempo di fasulla correttezza ipocrita – un altro modo di raccontare che non sia quello che mette chi scrive alla guida del racconto. Non l’obiettività ma l’aperta soggettività. Non la neutralità ma la schietta e persino esibita parzialità: la narrazione dal proprio punto di vista, il proprio sguardo sulle cose. Una cifra, nel caso di Oriana un marchio. Il mondo secondo lei.»