Qualcuno dirà che in fondo i partiti si somigliano un po’ tutti e che la nostalgia per il passato non è altro che sfiducia nel presente. Eppure, ora che è trascorso un secolo da quando, il 21 gennaio 1921, nacque a Livorno il Partito comunista italiano, è difficile resistere alla malinconia per un pezzo di storia nazionale che ha fatto sognare e lottare per i propri ideali milioni di italiani.
Un anniversario, quello del Pci, che risuona ancora più malinconico alla notizia della morte di Emanuele Macaluso, figura centrale del partito a cui si era iscritto nel 1941, quando ancora i comunisti si muovevano nella clandestinità. Se n’è andato «un pezzo importante della nostra storia ma che», ha scritto l’amico Paolo Franchi sul “Corriere della Sera”, «fino all’ultimo si è negato al ruolo di monumento».
A non essere un nostalgico, «se non di quella particolare nostalgia che chiama in causa la gioventù, e che ciascuno di noi prova, qualsiasi esperienza abbia vissuto», è il giornalista Fabrizio Rondolino, cresciuto tra le fila della FGCI. «Della mia gioventù il Pci è stato senz’altro un elemento essenziale, un fattore costitutivo e, come si usava dire, una scuola di vita».
Fabrizio Rondolino racconta tutto ciò che gli è rimasto del PCI
La sua “storia sentimentale” la racconta in un volume, Il nostro PCI. 1921-1991 Un racconto per immagini, in cui ha raccolto tutto ciò che gli è rimasto del partito, oltre ai ricordi. Perché, alle pagine scritte che ripercorrono la storia del Pci dagli albori fino allo scioglimento nel 1991, si alternano le immagini di una galleria storica che attraversa il Novecento, fra tessere di partito, stampa clandestina, manifesti delle campagne elettorali, coccarde, medaglie, cartoline, spille dei movimenti sindacali e operai.
L’effetto è quello di un album fotografico di famiglia, di un’Italia vivace e combattiva piena di giovani e di speranze, di partecipazione e di sogni, di inni alla libertà e alla giustizia.
«Di questa grande comunità umana e politica i simboli più amati erano la bandiera e la tessera», scrive Rondolino illustrando la sua collezione privata di memorabilia. «Ma se la bandiera è un simbolo prevalentemente collettivo, la tessera ha qualcosa di più intimo e personale».
Quel cartoncino ripiegato «che tutti portavamo nel portafoglio è oggi il coriandolo colorato di un mondo che non c’è più: ne è un frammento minore e minimo, e tuttavia di grande significato, sia per la storia dell’iconografia e della propaganda comunista, e dunque anche delle scelte politiche via via compiute dal Pci, sia per il valore sentimentale che ha rivestito nella storia soggettiva di chi in quel Partito ha militato e, soprattutto, vissuto».
Viene davvero un po’ di malinconia a sfogliare le pagine de Il nostro PCI. 1921-1991, quel partito che stava tra la gente e sapeva parlare ai cittadini. Non se ne leggono più, oggi, di manifesti come quello che nel 1968 invitava a votare comunista così: «Hai vaccinato tuo figlio contro la polio. Vaccinalo adesso contro la guerra, contro la miseria, contro lo sfruttamento, contro il fascismo», oppure quella locandina che diceva: «Tassate i profitti non i salari» o, ancora, il manifesto per il referendum abrogativo della legge sul divorzio del 1974: «Se credi nell’indissolubilità del matrimonio, nessuno ti impone il divorzio».
«Il Partito mi sembrava allora, e tutto sommato anche oggi, prima di tutto una comunità sentimentale»
scrive Rondolino, in cui si viveva, oltre che di idee rivoluzionarie e di impegno civile, anche di una buona dose di autoironia, perché non è vero che i comunisti erano tutti musoni.
Non lo era di certo il compagno Berlinguer, del quale si tramandano aneddoti divertenti, come quello che Rondolino riprende dai racconti di Alberto Menichelli, autista personale e capo della vigilanza del rimpianto segretario del Pci.
«Berlinguer è sul treno che lo porterà a Torino per un comizio. Un agente della scorta si avvicina a Menichelli per avvertirlo che “l’onorevole ha una scarpa in un modo e una in un altro”. Menichelli entra nello scompartimento per esaminare le scarpe del segretario. “Che c’è?” gli chiede Berlinguer. “C’è che hai una scarpa diversa dall’altra”. Berlinguer accosta i piedi, guarda le scarpe con attenzione e poi risponde: “Sì è vero, ma in fondo si somigliano”. E le tiene così».
Un altro, ci racconta ancora Rondolino, è quello sulla cooptazione attribuito ad Aldo Tortorella, tra i più stretti collaboratori di Berlinguer, «che suonava più o meno così: “Un gruppo di cretini si riunisce per cooptare uno ancora più cretino, così da poterlo controllare meglio. Dopo un po’ di tempo sono tutti talmente cretini da cooptare, inavvertitamente, un compagno intelligente. Questo noi lo chiamiamo ‘rinnovamento nella continuità’”. Ma certo le barzellette sul Partito, che pure non mancavano, potevano essere raccontate soltanto tra compagni, meglio se dirigenti: un po’ come fanno i preti, del resto».
Quel che resta del PCI nei libri
E così com’è impossibile «separare Enrico Berlinguer dal suo mito», a detta di Rondolino, è impossibile separare i comunisti dal loro mitico alter ego, Bobo, Quel signore di Scandicci, come lo chiama Sergio Staino, tra i vignettisti italiani più celebri, in copertina del volume dedicato a quarant’anni di strisce che hanno come protagonista il più umano, fedele e divertente elettore di sinistra che sia mai stato concepito.
«Bobo ha un pezzetto di ognuno di noi. Di quelli che hanno sognato la rivoluzione, che hanno sempre creduto nel valore della cultura, che hanno attraversato il femminismo con entusiasmo partecipativo, che si sono spesi per il valore della giustizia e della legalità»
scrive Dacia Maraini nella prefazione del libro edito da Rizzoli Lizard. «Bobo è l’incarnazione dell’uomo che si affanna a inseguire i tempi, pur rimanendo fedele alle antiche passioni. È l’uomo candido e gentile, avvilito per i troppi disinganni, i molti fallimenti della sua e della nostra vita, che cerca di capire e incidere su quelli delle prossime generazioni, che prendono corpo soprattutto nella figlia Ilaria».
«Il 10 ottobre del ’79, mentre Ilaria stava per compiere quattro anni, disegnai per la prima volta il personaggio di Bobo, me stesso»
scrive Sergio Staino. Dopo qualche mese, nel dicembre dello stesso anno, Bobo fa la sua comparsa sulle pagine di “Linus”. «Fu una cosa che non passò sotto silenzio» e ben presto molti cominciarono a parlarne e, soprattutto, a riderne.
Oreste Del Buono, che allora dirigeva la rivista a fumetti, gli disse:
«Il tuo Bobo mi ha coperto lo spazio lasciato libero dal Cipputi di Altan. Lui mi prende tutta l’area operaista e tu quella della media borghesia progressista, in pratica la parte più vivace del Pci».
«Il destino continuò il suo percorso e si incarnò nella figura di Emanuele Macaluso», ricorda ancora Staino. «Appena nominato direttore dell’“Unità” mi volle con pervicacia e insistenza al suo fianco sul giornale di Gramsci. Non riuscivo a capacitarmi di questo insistente desiderio. Come poteva un disegnatore satirico, normalmente usato per dileggiare i nemici di classe, essere accettato sulle pagine di un organo ufficiale del Partito comunista per prendere in giro i dirigenti dello stesso?».
Nei ricordi di Rondolino e di Staino, e di milioni di italiani, rimane però impressa una data su tutte, il 13 giugno del 1984, giorno dei funerali di Enrico Berlinguer.
Carlo Ricchini, caporedattore dell’“Unità”, chiese a Staino di disegnare una pagina per il giornale. «Rimasi sbalordito e, per qualche momento, in piena confusione mentale. Il fatto di poter dire la mia opinione partecipando attivamente al commento di questa importante giornata mi attirava molto ma, al tempo stesso, mi impauriva. Le figurine da me disegnate si muovevano con grande sicurezza e padronanza tra le pagine del giornale fondato da Antonio Gramsci, scherzando in modo irriverente su tutto e su tutti, ma intervenire all’interno di un dolore così profondo non avrebbe rischiato il cortocircuito?», si chiede Staino. «Ne uscì fuori quella che probabilmente rimane la storia più bella che abbia mai disegnato».
Il successo della striscia sui funerali di Berlinguer fu tale che Bobo divenne, per sempre, il rappresentante tipico del militante del Partito comunista italiano. Racconta Staino:
«Da più parti d’Italia arrivavano lettere dalle sezioni del partito, ognuna delle quali giurava che il vero Bobo lo avevano loro, viveva nella loro città e frequentava la loro Casa del Popolo.»
Anche Fabrizio Rondolino andò ai funerali di Berlinguer. «Roma era piena di sole e di gente, attraversata da decine di cortei: una folla immensa dispersa ovunque, per le strade, sui marciapiedi, alle finestre, davanti ai negozi con le serrande abbassate, arrampicati sui lampioni, in piedi sui tetti delle macchine. Un milione di persone, un milione e mezzo, due: la più grande manifestazione della storia d’Italia.
Non è stata una giornata eroica, però, non la ricordo così: malinconica invece, struggente, e in un certo senso conclusiva. È stato scritto e detto che quel giorno moriva il Pci, ed è vero».
Conclude Sergio Staino:
«Eppure Bobo ancora ci crede: sogna ancora il sol dell’avvenire, sogna un partito che, abbandonate le suggestioni comuniste, cerchi ancora di puntare sulla solidarietà, sulla fratellanza e sul rafforzamento della più genuina democrazia liberale sancita dalla nostra Costituzione.»
E allora chissà se ha ragione il piccolo Ernesto, protagonista dell’unico racconto per ragazzi di Marguerite Duras, figura di riferimento del femminismo europeo per le militanti del Pci, come ci ricorda Orietta Berti nella sua autobiografia Tra bandiere rosse e acquasantiere mentre racconta di sua mamma Olga che la portava ai comizi e ai cortei del Pci, «a distribuire garofani rossi: avrebbe dovuto ricevere in cambio qualcosa, ma la maggior parte delle volte i garofani finiva col regalarli. Collaborava alla organizzazione delle prime Feste de l’Unità. Distribuiva “Noi donne”, un giornale nato clandestino nel 1937, a Parigi, poi diventato organo dell’Unione Donne in Italia. Gli articoli erano firmati dalle principali voci del femminismo europeo: da Marguerite Duras a Camilla Ravera, da Miriam Mafai a Ida Magli».
Chissà se ha ragione lui, dicevamo, bambinetto ribelle di 7 anni che porta il nome del Che Guevara e che si rifiuta di andare a scuola. Come scrive la traduttrice di Ah! Ernesto, Cinzia Bigliosi, nella prefazione del libro illustrato edito da Rizzoli, «la follia di Ernesto, in un mondo interamente assoggettato alla logica del consenso, risiede in quella libertà debordante, eccessiva, rivoluzionaria di cui egli vorrebbe disporre nel suo rifiuto di qualsiasi valore prestabilito, nella sua volontà di distruggere e di sabotare il sapere – nel suo caso il sapere scolastico – per ritrovare dentro di sé l’innocenza universale».