Er Sorcio, er Ventricolo e quer popolo cojione, su’ Eminenza er Cardinale, er Pastorello che disse ar su’ padrone “Tu, nu’ lo nego, parli bene assai” e quell’Ape che alla fin fine sussurra che “tutto sommato, la felicità è una piccola cosa”. Amara sì ma benefica risuona la risata che ci sorprende ogni qual volta guardiamo er monno di Ommini e bestie che popola le favole e le poesie che ci ha tramandato Trilussa dal suo Novecento. Ridiamo amaro per gli eterni giochi di potere, i soprusi dei potenti sui più deboli, li sorcetti poveri e li sorcetti ricchi, i vizi, le furberie, i tranelli da stanare e snidare attraverso il libbero pensiero, che il poeta arguto e raffinato ci incalza a esercitare col medesimo sarcasmo, con la medesima consapevolezza beffarda dell’umana fragilità, con quel romanesco comprensibile a tutti che ha reso inscalfibili i suoi versi, incorruttibili né dal tempo né, tanto meno, dal regime fascista che ebbe a conoscere e a fronteggiare con l’arma puntuta ironica tagliente della sua penna.
Nell’anno in cui si celebrano i 150 anni dalla nascita di uno dei più grandi poeti dialettali d’Italia, Poesie, imponente antologia appena pubblicata da Bur nella collana Contemporanea, ha non soltanto il pregio di ricordare e di spiegare – con l’introduzione di Rino Caputo e la curatela di Secondina Marafini, entrambi docenti di Letteratura – la contemporaneità e il valore dell’opera di Trilussa.
La raccolta della Bur, che tra le pagine in versi e sonetti si arricchisce di alcuni disegni inediti dell’autore, ha inoltre il merito di portare in primo piano la figura di Rosa Tomei, sua compagna di vita, allieva e poetessa, riconoscendole finalmente il ruolo decisivo che ebbe nella vita e nella produzione letteraria di Trilussa.
Poesie è quindi l’antologia di Trilussa “insieme” al contributo di Rosa
«troppo spesso ingiustamente etichettata come “serva” di Trilussa ma, in realtà, collaboratrice del Poeta e, sempre più, negli anni, e nello Studio-magione di via Maria Adelaide, “la Reggina”, per la sua ormai accertata e qualificata collaborazione creativa, all’interno di un intenso e paritario sodalizio umano e intellettuale»
scrive Caputo. «E, come in tutte le buone storie d’Amore, la fusione di due anime non impedisce ma, anzi, vieppiù esalta la personalità dei singoli coprotagonisti».
L’amore che Trilussa condivise con Rosa, diventata sua mano e co-pensiero, rimane scolpita nella poesia Felicità della raccolta Acqua e vino, che chiude il volume della Bur e che il poeta volle venisse incisa sulla propria tomba.
C’è un’Ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.
«Intrattenersi con Trilussa», suggerisce Secondina Marafini, «significa essere disposti a immergersi fino in fondo nella sua poetica per andare oltre la dissimulazione e capire i simboli che ha usato per parlarci, tra cui l’anagramma del cognome». All’anagrafe Carlo Alberto Camillo Mariano Salustri, Trilussa ha giocato pure col suo nome e non stupisce affatto se gli accademici discutono anche sulla vera data di nascita: il certificato di battesimo, risalente al 1938, all’epoca delle leggi razziali, riporta il 26 settembre 1871, battezzato il primo ottobre. Ma Trilussa diceva pure di essere nato nel 1873 o anche nel 1874 alludendo forse, come interpretano gli studiosi, alla sua vera genealogia, ovvero alla morte del padre nel 1874.
Al di là dei dubbi anagrafici e dei dibattiti accademici, a noi che possiamo ancora leggerla resta la forza letteraria e moderna della sua opera, come scrive Rino Caputo, membro dell’Associazione degli Italianisti, nell’introduzione al volume:
«Trilussa continua a risultare una lettura fresca, appena velata dal tempo mutato della ricezione multimediale contemporanea. Di questa lunga durata le ragioni sono davvero molteplici ma, in particolare, risalta la cifra linguistica dello stile. Trilussa usa, com’è stato detto, un romanesco “mediano”, dialettale quel tanto che basta per attingere espressività dalla tradizione (in primo luogo da Belli, ovviamente) ma adattato alla progressiva omologazione dell’italiano nazionale, soprattutto nella mescidazione ricca e imprevedibile della “terza” Roma, capitale d’Italia. È perciò che, ancora oggi, Trilussa piace, perché è letto e capito dappertutto, a Milano come nel resto della penisola.»
Secondina Marafini si immagina
«la figura alta quasi due metri, con un piede poggiato a fine Ottocento, la gamba di avanzamento spostata nel Novecento e lo sguardo rivolto con chiarezza verso il futuro. Pur avendo una radice nella tradizione, infatti, il poeta non si è chiuso all’esplorazione di sperimentazioni formali e novità espressive, tanto che risulta godibilissimo per il lettore di oggi grazie al suo linguaggio capace di prendere vita: bisogna solo avvicinarsi.»
Non c’è mai stato poeta letto dalla gente comune quanto Trilussa, dice Marafini,
«che del popolano inteso come rustico non ha avuto nulla, nemmeno l’uso linguistico, forgiato per raccontare i pensieri suoi, dei romani, degli italiani e in definitiva di ogni essere umano. Poeta e intellettuale, ha adattato il romanesco, come un guanto, alla sua immagine elegante e al ruolo di una nuova Roma che, in veste di capitale del Regno d’Italia, ospitava un crogiuolo di individui di varia origine. Ha accolto con rispetto la tradizione romanesca, ha studiato con la precisa finalità di coniare un dialetto universalmente comprensibile: ne ha fatto la lingua a latere dell’italiano nazionale, ma non meno specifica, misurata sia nell’uso delle parolacce sia nell’allusione ai doppi sensi, moderna e cangiante insieme al movimento degli anni. Nell’uso dell’inflessione dialettale, Trilussa è stato l’antesignano precursore di Gadda e Camilleri.»
Il poeta, che aveva assistito da bambino alla trasformazione di Roma da pontificia a capitale del Regno d’Italia e, da adulto, all’instaurazione del regime fascista, ha piegato abilmente i suoi versi alla denuncia degli abusi, della discriminazione razziale, della privazione delle libertà. Ha descritto la lotta tra prepotenti e sottomessi, tra potenti e fragili per schierarsi sempre a favore dei secondi, i quali spronava a mantenere la propria dignità. Sprona noi a cercare la felicità nella consapevolezza di sé, a essere padroni di noi stessi, osservando il mondo con spirito critico e libero.
«Il vero Trilussa, profondo nel trasferire messaggi morali impor- tanti», segnala Marafini, «è quello che critica la dissoluzione dei valori alti, che invita a restare ancorati all’onore, al rispetto, alla verità, alla prudenza, al coraggio, alla morale, all’ideale, a perseguire la sincerità e quello che proclama il libbero pensiero, vessillo e summa di tutto.»
Er Ventriloco, tra i sonetti su cui si apre il volume edito dalla Bur Rizzoli, ci provoca sin dalla prima strofa:
«Se credi a questo, sei ’no scemo, scusa:
pô sta’ che un omo parli co’ la gente
come se ne la panza internamente
ciavesse quarche machina arinchiusa?»
Sono quadretti sociali espressivi e sintetici, spiega Marafini, «che passano in rassegna il popolo, molto spesso borghese, protagonista di una vana celebrazione di sé con falsi usi e finto perbenismo, inutilmente declamato e poco praticato».
Trilussa tra popolo borghese e favole
Con le favole, poi, Trilussa «è stato riconosciuto supremo artefice tanto che, nel XX secolo, parlando di celebre favolista ci si è riferiti, per antonomasia, a lui solo». Nella critica ai partiti, alle associazioni e alle superstizioni religiose «il Trilussa delle favole è più mordente di quanto fosse già nei sonetti. L’impiego degli animali allude bene ai tipi umani e illude il lettore di essere escluso dalla metafora utilizzata nel momento in cui si sente concorde con la visione dell’autore, che coinvolge tutti, però, e non solo gli altri. Trilussa ironizza sornione su qualsiasi ideale falsamente sbandierato, persino sul libbero pensiero».
La libbertà de pensiero
«Un Gatto bianco, ch’era presidente
der circolo der Libbero Pensiero,
sentì che un Gatto nero,
libbero pensatore come lui,
je faceva la critica
riguardo a la politica
ch’era contraria a li principi sui.
– Giacché nun badi a li fattacci tui,
– je disse er Gatto bianco inviperito –
rassegnerai le propie dimissione
e uscirai da le file der partito:
ché qui la pôi pensà libberamente
come te pare a te, ma a condizzione
che t’associ a l’idee der presidente
e a le proposte de la commissione!
– È vero, ho torto, ho aggito malamente… –
rispose er Gatto nero.
E pe’ restà ner Libbero Pensiero
da quela vorta nun pensò più gnente.»
«Metafora di un’aberrante metamorfosi dell’uomo che assume comportamenti bestiali peggiori di quelli tenuti da quelle bestie che nelle favole rappresentano i vizi umani», sono le poesie riunite in Ommini e Bestie, con cui il poeta «ammonisce, neppure troppo implicitamente, a ripristinare un’autentica, seppur imperfetta, umanità, fatta di sentimento e ragione, non di mero calcolo per tornaconto».
Un volo de ricognizzione
«Doppo un gran volo l’Aquila reale
s’incontrò co’ la Lupa che je chiese:
– Che novità ce stanno ner paese?
Come l’hai ritrovato?… – Tale e quale:
un ber celo, un ber mare, e lo Stivale
co’ le stesse osterie, le stesse chiese…
– Però, l’Italia, a quello ch’ho sentito,
è più forte e più granne… – Questo è vero,
ma l’Italiano s’è rimpiccolito:
alliscia er rosso e se strofina ar nero,
come se annasse in cerca d’un partito
fra er Padreterno e er Libbero Pensiero.
Nun c’è sincerità, nun c’è più stima:
l’ideale politico è un pretesto
pe’ potè caccià via chi c’era prima;
qualunque tinta è bona: in quanto ar resto,
ognuno cerca d’arivà più presto,
ognuno cerca d’arivà più in cima.»
Con Nove poesie Trilussa dipinge «personaggi dalle tinte grottesche, convinti del successo attraverso la loro falsità», spiega Marafini; «sono scrutati e mostrati da Trilussa che, con un sorriso beffardo ma garbato, solleva il velo con cui essi tentano vanamente di coprirsi». Imperdibile Dar confessore sin dalla prima strofa:
«Don Pietro Patta è un bravo confessore
che serve tutta l’aristocrazzia:
è de manica larga e tira via
pe’ fasse benvolé da le signore,
massimamente da le maritate
ch’hanno bisogno d’esse perdonate.»
Nelle Storie, 43 poesie riferibili al 1913 e successive alla morte della mamma del poeta, «ogni personaggio può essere interpretato facilmente come immagine di una caratteristica o di un aspetto essenziali da perseguire nel cammino personale per costituire un’identità peculiare e disporre pienamente del proprio tempo».
La mosca bianca
Una Mosca diceva: – Quanno l’omo
vô fa’ capì ch’er tale è un galantomo
lo chiama mosca bianca: e questo prova
ch’er galantomo vero nun esiste
perché la mosca bianca nun se trova.
Io, però, che ciò avuto la fortuna
de nasce mosca nera, che me manca
per esse onesta? Che diventi bianca
come un razzo de luna… –
E co’ ’st’idea fissata ne la mente
stette tutta la notte
framezzo a le ricotte,
fece un bagno de latte e diventò
d’una bianchezza propio rilucente.
Uscì, volò, ma subbito fu vista
da un Re, collezzionista de farfalle,
che la mésse ar museo co’ lo spillone
ficcato ner groppone.
La Mosca disse: – È questa la maniera
de premià l’onestà de le persone?
Quant’era mejo se restavo nera!
Lupi e agnelli, 60 poesie scritte tra il 1914 e il 1919, «sono state influenzate dai venti di guerra, ma non solo. La commovente testimonianza di un poeta attento ai bisogni veri dell’umanità, resta indelebile» e attuale.
«Er Bambinello ha chiesto: – Indove stanno
tutti li campagnoli che l’antr’anno
portaveno la robba ne la grotta?
Nun c’è neppure un sacco de polenta,
nemmanco una frocella de ricotta…»
Le cose è stata la prima raccolta pubblicata con Mondadori e il primo libro completamente elaborato nello Studio Trilussa, laboratorio poetico «meta ambita di poeti, attori, registi, pittori, intellettuali, donne, scolaresche». L’idea, spiega Marafini, «è nata dopo la morte della mamma e si è definita quando, nel 1920, il poeta ha ricevuto da Benedetto Croce l’onorificenza di Cavaliere dell’ordine della Corona d’Italia per gli alti meriti civili della sua poesia». A rappresentare lo Studio Trilussa, l’immagine-logo del Lupo, «che ha una libreria retrostante a fare da sfondo e una lente di ingrandimento davanti alle zampe a ingrandire il nome Trilussa, autore e scrutatore del mondo per i lettori».
Con la raccolta Gente inizia l’opposizione al regime fascista, «verticistico e uniformante per la massa, che usava, in maniera diversa dal poeta, parole care e ideali quali patria, onore, libertà, dignità, nazione, famiglia». Sono 32 componimenti che «fotografano impietosamente la società degli anni Venti del secolo scorso, in cui la diffidenza e l’opportunismo sono una caratteristica che diventa oggetto di amara ironia da parte del poeta».
Ma sarà con le raccolte del Libro n. 9 e di Giove e le bestie, premiata da un grande successo di pubblico e di critica, e con i componimenti del Libro muto, che Trilussa dichiara apertamente il proprio antifascismo, segnando «una rottura non più sanabile con il governo fascista», sebbene Mussolini, «ancora avido di consensi, avallò il libro di successo dell’autore come estremo esempio di magnanima tolleranza, oltre che per minimizzarne i messaggi attraverso l’assenso».
Er saluto romano
Parla un portiere
Er saluto me piace perché è bello,
e nessuno lo critica: ar contrario!
Ma se viè usato più der necessario
è come la levata de cappello.
S’io sto qui pe’ portiere e m’aranchello
a fa’ er pecione pe’ sbarcà er lunario,
mica è vero che faccio er leggionario,
che devo arzà la mano a quest’e a quello!
Eppoi chi s’è lagnato? Quer puzzone
de lo strozzino der seconno piano,
che fa er fascista pe’ speculazzione.
Io, però, che conosco l’idee sue,
un giorno o l’antro, invece d’una mano,
finisce che je l’arzo tutt’e due.