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Alla clinica Kokoro i gatti curano i malesseri dell’anima

E se un giorno un medico, per curare i malesseri della tua anima, ti prescrivesse un gatto? Come reagiresti? Lo prenderesti sul serio o penseresti che è uno scherzo? Sospetteresti che il dottore ti stia mettendo alla prova con una psicoterapia innovativa e stravagante? Staresti al gioco o ti sentiresti presa in giro? E se poi quel medico ti consegnasse per davvero, anziché pasticche e gocce, un micione in carne e ossa? Ti affideresti alle sue cure tornandotene a casa con il trasportino in una mano e la ricetta nell’altra?

Perché è proprio quel che succede ai protagonisti di Un gatto per i giorni difficili di Ishida Syou, delicatissima scrittrice giapponese che con questo suo primo romanzo, edito in Italia da Rizzoli con la traduzione di Raffaele Papa, ha firmato un esordio in corso di pubblicazione in 25 paesi.

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Da anni la letteratura giapponese feel good è in testa alle classifiche

Che la narrativa giapponese piaccia tanto quanto piacciono i gatti è fatto assai noto; basti scorrere la lista dei romanzi bestseller che hanno come protagonisti felini e umani, quest’ultimi salvati, nella mente o nello spirito, dalla compagnia di suadenti e sempre misteriosi micioni, per cogliere un fenomeno registrato dalle classifiche di vendita nel mondo, e non soltanto in Giappone, dove la tradizione del narrare storie di gatti è millenaria quanto l’attrattiva della cultura nipponica.

D’altronde, la fascinazione esercitata da questo genere di narrativa non è questione di puro costume, prova ne sia l’effetto benefico che sortisce la lettura del romanzo di Ishida Syou, che ci accoglie con grazia in un’atmosfera soffusa di magia e di saggezza fin dalle prime morbide parole che leggiamo sulla copertina, tra i gonfi cuscini su cui è accoccolato un delizioso micione bianco e nero a suggerirci null’altro che pace e serenità:

«A volte per ritrovare se stessi basta aprire la porta di casa a un ospite inatteso»

Un gatto per i giorni difficili: la cat therapy alla clinica Kokoro

Succede così che, ad aprire la porta della tanto famosa quanto enigmatica (lo scoprirete leggendo) clinica per l’anima “Nakagyo kokoro byoin” nel distretto di Nakagyo, nel cuore di Kyoto, sono via via i protagonisti dei cinque capitoli che si susseguono narrandoci ognuno apparentemente una storia a sé, in un gioco di specchi e d’illusioni a sussurrarci invece piano piano all’orecchio, lungo duecentocinquanta pagine di vera leggerezza felina, coincidenze e parallelismi e suggestioni che ci accompagneranno alla conclusione di questo strano viaggio dell’anima con lo stesso stupore e con la stessa gratitudine che sorprenderà i protagonisti alle prese con i propri rispettivi ospiti inattesi. Scontato mettervi sull’avviso che vi innamorerete all’istante di loro (i gatti, s’intende), così come non faticherete affatto a immedesimarvi negli umani, fragilissimi, disorientati, impacciati nelle loro tribolazioni quotidiane, paralizzati dai loro dubbi esistenziali, sofferenti nei propri intimi dolori che testimoniano della contemporaneità e, insieme, dell’universalità dei singoli microcosmi che, in Un gatto per i giorni difficili, arriveranno a congiungersi in un mosaico dai toni tenui e naturali di un amore indiscusso, di un legame profondo tra uomo e animale fatto di gesti semplici e di rispetto per ogni forma e scelta di vita.

Bi è una gatta meticcia di otto anni «soffice come una coperta» che, ce ne accorgeremo dopo il grosso guaio che combinerà, adora sgranocchiare la carta. Il medico la prescriverà a Shuta, il primo ad aprire la porta della clinica per l’anima nel capitolo d’apertura del romanzo di Ishida Syou.

Shuta guardò nel trasportino e domandò: «Questo… è un gatto?».

«Sì, è un gatto» rispose il medico, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Certamente sembrava un gatto, sotto ogni aspetto, ma Shuta non se ne capacitava.

«Un vero gatto?»

«Sì. Funziona molto bene. Da tempo si ipotizza che i gatti siano una cura miracolosa. In altre parole, talvolta possono rivelarsi più efficaci dei farmaci comuni.»

I protagonisti di Un gatto per i giorni difficili: tra umani e gatti

Shuta ha venticinque anni, lavora in una nota società di brokeraggio, «di quelle che si vedono nelle pubblicità alla tv», ma il suo è un ambiente di lavoro molto tossico, tanto tossico da tormentarlo nel dubbio di quale sia la scelta giusta da fare, se licenziarsi o se darsi da fare per trovare una modalità salvifica di rimanere in azienda.

Bi chiudeva gli occhi. I gatti con gli occhi chiusi sembrano sorridere, e allora anche Shuta sorrideva.

Sorrideva un po’ ogni mattina.

Era da tanto che non riusciva a fare una cosa così semplice, ma adesso, finalmente, Bi lo faceva sorridere.

Margot, meticcia pure lei, ha il pelo che è «un miscuglio di nero e marrone rossastro», gli occhi di «un verde tenue simile a quello del tè, con linee nere verticali» e un’insofferenza per le porte chiuse. Il medico la prescriverà a Koga, cinquantenne con una forte avversione per la psicoterapia che lavora come supervisore di medio livello in un call center. Da pochi mesi è arrivata una nuova collega, alla quale è stato affidato il ruolo di vicecapo, e Koga non la sopporta al punto di non riuscire più a dormire, «la voce di quella donna mi perseguita perfino in sogno». Anche a casa, con la moglie e la figlia i rapporti non vanno granché bene. Naturalmente, toccherà a Margot scompigliare la routine di incomunicabilità familiare e professionale…

La piccola Aoba frequenta la quarta elementare ma a fatica, negli ultimi tempi si è incupita a tal punto da chiedere alla mamma, che troppo spesso non la capisce perché in fondo non la ascolta, di portarla alla famosa clinica dell’anima, dove proprio lei, la madre, colta da un improvviso ricordo d’infanzia dimenticato in chissà quale angolo del suo cuore, riannoderà i fili del suo rapporto con la figlia grazie al gattino di due mesi e mezzo dallo sguardo innocente, gli occhi «di una creatura che non ha ancora dovuto imparare la cautela», che il medico affiderà alle cure della piccola Aoba.

Il dottore, che fino ad allora era rimasto in silenzio ad ascoltare, sollevò la gabbietta, la girò verso di lei e aprì la porticina.

«Ha effetto immediato, questo gatto» disse, facendolo uscire. Con una mano lo teneva sotto, sulla pancia, con l’altra lo tirava piano per le zampe. «È così che si prendono i gatti. Il corpo è molto morbido, quindi non esiti a tenerlo saldamente. Ecco, provi.»

Tomoka è una stilista; insieme all’amica Junko aveva coltivato il sogno della moda sin dai tempi dell’università e a ventinove anni avevano fondato un atelier di borse molto in voga. Quando incontra il medico della clinica, Tomoka gli sottopone l’interrogativo all’origine del malessere che sta inquinando la sua creatività e le sue giornate in azienda: «Vorrei sapere come fare per essere più tollerante nei confronti delle negligenze altrui». La risposta del medico sarà «una doppia somministrazione simultanea». Avrà gli occhi «del colore limpido del mare» di Tanku, un maschio di due anni dalle movenze lente ed elegantissime, sempre in cerca di coccole, «sotto quelle zampine bianche e stondate c’erano quattro rigonfiamenti rosa, grandi come fagioli rossi azuki, con una protuberanza al centro che faceva venire in mente il monte Fuji», e che ispirerà Tomoka in modi del tutto inattesi.

«È l’effetto che fanno i gatti. Resta nel cuore un desiderio di non separarsi da qualcosa di caldo.»

Così come farà Tangerine, una femmina di quattro anni tranquilla e pacifica fino a quando Tomoka non la porterà a casa, dove l’incontro con Tanku metterà a soqquadro tutto quanto…

Nell’ultimo capitolo, è la giovane Abino a varcare la soglia della clinica. Ha venticinque anni ed è una geiko, come vengono chiamate le apprendiste geisha nell’area di Gion dove è cresciuta. Soffre di un malessere dei più insidiosi, un senso di colpa da cui non riesce a liberarsi, «come se il mondo la stesse punendo», finché anche lei, come Tomoka, non incontra alla clinica per l’anima due gatti: una micetta di circa due anni tutta macchie cresciuta senza un nome e con un destino già segnato da una malattia incurabile, ma con «fieri occhi fulgidi», e Mimita, uno Scottish fold di cinque mesi con le orecchie talmente schiacciate «che sembrava indossare un cerchietto con due piccoli fiocchi ai lati». Saranno queste due creature, per vie traverse, ad aiutarla a non perdersi, a guidarla verso una nuova consapevolezza di sé.

«I gatti sono così» disse il medico con un sorriso. «Diffidenti, ma sanno come farsi voler bene. È quasi come se… chiamassero le persone. E chi viene chiamato, non può rifiutare».