Prendiamo a prestito, per non dimenticare, per celebrare il Giorno della Memoria il 27 di gennaio, le lucide parole che Luigi Meneghello scrisse nella Nota in limine di Promemoria. Lo sterminio degli ebrei d’Europa (1939-1945), che Bur Rizzoli riporta in libreria nell’anno in cui ricorre il centenario dalla nascita dell’autore di Libera nos a malo e Piccoli maestri, uomo tra i più incisivi a rappresentare il Novecento. Promemoria, edito dal Mulino nel 1994, raccoglieva i tre articoli, dettagliati e rigorosi, che Meneghello aveva firmato (con lo pseudonimo di Ugo Varnai) tra il dicembre del 1953 e l’aprile del 1954 sulle pagine della rivista “Comunità”, per dar conto di un lavoro altrettanto rigoroso dello storico Gerald Reitlinger che pochi mesi prima aveva pubblicato in Inghilterra The Final Solution (La soluzione finale). «Tra i primissimi studi d’insieme sull’argomento», scriverà Meneghello nel 1994; «un tentativo, che parve allora a me (e mi pare ancora) avesse dell’eroico, di ricostruire in modo minuzioso e sistematico la storia degli stermini».
Seppure, come raccontò a un amico nell’aprile del 1954, «mi sono costati parecchia fatica (per non parlare della nausea e del panico in cui ogni tanto ti getta la sanguinosa materia)», a spingerlo a studiare il saggio inglese e a scriverne era stata la volontà di far conoscere anche agli italiani le verità documentate con tanto rigore da Reitlinger.
«La lettura del libro ebbe su di me un effetto sconvolgente. Io avevo notizie personali e dirette (partecipate con estrema reticenza, ma assorbite quasi per osmosi) su due dei luoghi chiave, Auschwitz nel 1944, e Belsen nei primi mesi del 1945, ma non avevo mai voluto fare veramente i conti con la realtà ultima dei fatti, guardare in faccia il mostruoso insieme della cosa. Ora per la prima volta capivo il senso generale e la natura profonda di quegli eventi. Erano eventi incredibili e insieme orribilmente documentabili.»
Ciò che lo convinse, quarant’anni dopo, ad accettare la proposta di riprendere in mano quegli scritti per raccogliergli in volume fu
«la possibilità che questa semplice esposizione possa ancora servire in Italia, nella presente congiuntura, a dare a qualche lettore più giovane un’idea adeguata di ciò che è avvenuto (che è stato fatto) nel cuore dell’Europa appena l’altro ieri, e insieme a fornire una misura delle orribili potenzialità che si annidano nella nostra natura umana civilizzata.»
Possibilità che a noi pare validissima a tutt’oggi, in un’epoca tormentata da rigurgiti negazionisti.
«Le inconcepibili stragi vanno studiate, comprese nei dettagli dei fatti e nella complessità delle ragioni, per non fornire interpretazioni devianti o strumentalizzate, per opporsi alle diverse forme di negazionismo, per chiarire fin dove è possibile le zone grigie delle responsabilità; e vanno soprattutto divulgate per non permettere a nessuno l’alibi dell’ignoranza», osserva nell’introduzione Luciano Zampese, che ha curato la nuova edizione di Promemoria edita dalla Bur. «Alla base c’è quell’esigenza di scrivere “con scrupolo e chiarezza” – vale a dire onestà di fronte ai fatti e rispetto per l’interlocutore», che in Meneghello si espresse anche nella sua attenzione al valore e all’uso delle fotografie a supporto del lavoro giornalistico, dando l’avvio alla riscoperta e alla circolazione di massa delle immagini dell’Olocausto in Italia. Promemoria raccoglie 24 fotografie, per la maggior parte provenienti dall’archivio del DEC, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, raccolte con l’aiuto dello stesso Reitlinger e scelte da Meneghello «per documentare l’orrore e la realtà delle cose», sebbene «tecnicamente cattive»; istantanee scattate da soldati o da altri tedeschi che non dovevano venir scambiate per provocazioni emotive retoriche, bensì nuda e cruda testimonianza di quel che era accaduto. Nell’inviare le foto all’amico Zorzi, il direttore della rivista “Comunità”, Meneghello scrisse, a proposito delle didascalie a corredo: «Mi ha paralizzato l’impegno a non lasciarmi prendere la mano dal sentimento – forse sai che mia moglie fu deportata a Auschwitz dall’Ungheria nel ’44 e perdette in questa prima selezione papà e mamma oltre a altri parenti (tra cui un nipotino di quattro anni)».
Libri sull’Olocausto: Franci, Sergio, Eddy e i sopravvissuti
Giornata della memoria – Robert Waisman: l’orfano ebreo sopravvissuto
È scattata a Écouis, in Francia, nel luglio del 1945, la prima delle fotografie che ci accompagnano nella lettura della testimonianza inedita de I ragazzi di Buchenwald, che Rizzoli porta in libreria in occasione del Giorno della Memoria. Tra quei ragazzi c’era Robert Waisman che a ottantanove anni, insieme alla scrittrice Susan McClelland, ha deciso di raccontare la sua storia in un libro. I ragazzi di Buchenwald, come furono ribattezzati, sono stati il gruppo più numeroso di orfani ebrei sopravvissuti all’Olocausto. All’arrivo a Buchenwald, lager tra i più grandi della Germania nazista, le truppe americane trovarono lì rinchiusi più di mille ragazzi ebrei sotto i diciotto anni. 427 furono accolti in Francia dalla OSE, la Œuvre de Secours aux Enfants fondata nel 1912 a San Pietroburgo da intellettuali e medici ebrei per offrire assistenza medica alle comunità ebraiche sopravvissute ai pogrom. Nel 1922, quando divenne presidente Albert Einstein, la OSE, che intanto aveva esteso il suo braccio d’azione in Polonia e in altri paesi dell’Europa orientale confinanti con la Russia, spostò la sede prima a Berlino e, in seguito alle persecuzioni naziste, in Francia dove, con l’aiuto di studiosi, professionisti sanitari, artisti e psicologi, fornì a quei ragazzini le cure necessarie per riprendere a vivere.
Per molto tempo, dopo la primavera del 1945, Romek Waisman dimenticò. Nel novembre del 1948, a diciassette anni, emigrò in Canada, a Calgary, dove cambiò il suo nome in Robert, venne accolto da una famiglia e iniziò a lavorare in una fabbrica di cappelli.
«Quante cose nascosi, riposte al sicuro da qualche parte dentro di me! Non avevo altra scelta, immagino. Il mio caro amico Robert Krell, oggi psichiatra in pensione, costretto anche lui a nascondersi durante l’Olocausto, una volta mi disse: “Quando si è in modalità sopravvivenza, credi che ci si possa concedere il lusso della memoria?”»
Poi successe un fatto. Nel 1984 Waisman venne a sapere che un insegnante canadese, James Keestra, aveva detto ai suoi studenti che «quel che avevo vissuto, il terribile periodo della storia umana ora noto come Olocausto o Shoah, non era mai esistito.»
Così Robert inizia a raccontare prima «sottovoce, con esitazione», poi via via con maggiore sicurezza: «Ho parlato ai media di tutto il Nord America, quindi dell’Europa e addirittura dell’Australia. Ne ho parlato perfino in Germania. E nel mentre è accaduto qualcosa di interessante. Ho cominciato a rendermi conto che non era soltanto l’Olocausto che dovevo raccontare», si accorge che dentro di lui c’era un’altra storia:
«Come siamo riusciti a voltare pagina? Alcuni di noi hanno avuto un’esistenza straordinaria, diventando medici, avvocati, guide spirituali, professori, insegnanti, genitori, mariti amorevoli, nonni affettuosi. Non è stato così per tutti, si badi bene. Alcuni sono morti giovani e altri hanno dovuto affrontare enormi difficoltà mentali e fisiche. Ma la maggior parte di noi ragazzi di Buchenwald, come ci ha ribattezzati la stampa, ha vissuto una vita molto appagante. Elie Wiesel, per esempio, che per le sue opere e il suo attivismo ha vinto nel 1986 il premio Nobel per la pace. Wiesel è stato un ragazzo di Buchenwald.
Nei campi di concentramento, che noi chiamavamo ‘campi della morte’, durante la notte gli uomini sussurravano: “Se qualcuno di voi sopravvive, deve raccontare quel che è successo qui. Il mondo non può dimenticare. Il mondo non può ripetere tutto questo”. E nemmeno possiamo dimenticare che l’amore è più forte dell’odio. E che, come ho scoperto in prima persona, l’amore ci riporta a casa.»
Giornata della memoria – L’ultima partita di Alojzy “Alex” Ehrlich
Doveva scrivere di Auschwitz, doveva vincere l’ultima partita.
«Era stato il suo amico Horowitz a chiederglielo un giorno piovoso di quell’assurdo autunno – erano trascorsi quarantasette anni! – mentre gli passava davanti, al di là del reticolato, sapendo di andare a morire. Aveva gli occhi che sembravano schizzare fuori dalle orbite, la giacca a righe bianche e nere, troppo larga per il suo corpo scheletrico: “Se sopravvivi, giurami che racconterai quello che abbiamo vissuto!” gli aveva detto. Alex glielo aveva giurato ma fino a quel momento non aveva mantenuto la promessa: troppo dolore, troppi episodi che non voleva confessare neanche a se stesso. E troppa vergogna. Perché rigirare il coltello nella piaga riesumando ricordi che per anni aveva confinato nelle stanze segrete della memoria?»
Eppure, il primo gennaio 1991, giorno del suo settantesimo compleanno, Alojzy “Alex” Ehrlich, ebreo, vicecampione mondiale di tennistavolo, si siede alla scrivania davanti alla Olivetti Lettera 32 che gli ha regalato il suo amico italiano Arnaldo per convincerlo a scrivere. «Ha una storia lunga da raccontare. Le immagini emergono nitide, crudeli nella loro indimenticabile ferocia».
Sono le prime pagine de L’ultima partita, romanzo ispirato al memoriale inedito di Ehrlich che Enrico Pedemonte, giornalista e scrittore, ha scritto dopo aver ricevuto nella primavera del 2019 il testo originale in francese e la traduzione in italiano da Arnaldo Morino, l’amico di Alex.
Quando viene arrestato a Bourbon dalla Gestapo alle tre del pomeriggio del 12 giugno 1944, «il momento in cui la mia vita cambia per sempre», Alex è già un campione, ha vinto i Campionati internazionali di Germania e di Inghilterra e, per tre volte, il titolo di vicecampione del mondo di tennistavolo. Dopo la liberazione, tra la fine degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta, Alex vince ancora: tra gli altri, gli Internazionali di Francia, Irlanda, Germania e Olanda. Nel 1952 entra nella squadra nazionale francese e nel 1957 arriva ai quarti di finale ai Campionati mondiali di Stoccolma. Quando si ritira dallo sport attivo diventa allenatore di squadre importanti, tra cui la nazionale svedese. Prima di morire per un cancro allo stomaco, il 7 dicembre 1992, consegna ad Arnaldo il suo memoriale.
«Alex osserva la scritta sull’avambraccio. È sempre lì, appena scolorita dal tempo. Ogni giorno la guarda, come se dovesse dimostrare a se stesso che quelle cose gli sono successe davvero. Non se ne vergogna, anzi, la considera una medaglia, ma non ama esibirla perché ogni volta si deve immergere in racconti interminabili, le persone allargano gli occhi e cominciano a osservarlo come se fosse un marziano sceso da un’astronave, un eroe, certo, ma anche un’anomalia con cui non sanno come rapportarsi. Alcuni, più audaci di altri, arrivano a chiedergli che cosa sia quella B che non sono abituati a vedere davanti al numero di matricola degli internati. E lui, con il cuore che palpita, deve spiegare che la A e la B erano state introdotte ad Auschwitz solo a partire dal maggio 1944 per distinguere i prigionieri ebrei dagli altri, in uno sforzo di perfezionare l’efficienza e la produttività dell’organizzazione. Ma con il passare del tempo ha trovato sempre più intollerabile filtrare i suoi rapporti sociali attraverso quella scritta incisa sulla pelle. Così ha cominciato a coprirla con discrezione indossando maglie con le maniche lunghe anche d’estate. Quando ancora gareggiava, dopo la guerra, portava larghe polsiere di spugna per asciugare il sudore della fronte.»
Enrico Pedemonte spiega che, ad averlo convinto ad accettare la proposta di trasformare il memoriale in un romanzo, «non è stata solo la stupefacente vicenda narrata ma, soprattutto, la sincerità, a tratti ingenua, a tratti sfrontata, con cui Alex racconta la sua vita. Sentendosi alla fine, con una grave malattia che lo sta logorando, Alex decide di rivelare al mondo, ma soprattutto a se stesso, la trama della sua esistenza senza mai indulgere in facili retoriche, senza censure, senza nascondere l’ambiguità delle sue scelte e le contraddizioni della sua personalità, solare e ombroso, prepotente ma generoso, candidamente bugiardo, perennemente infedele ma ugualmente devoto fino alla morte. La giovinezza, gli amori, il sesso, i trionfi nello sport, fino al dramma del campo di concentramento, tutto è descritto con disarmante candore. Alex svela i lati oscuri del suo carattere, in una lunga autocoscienza che lo porta a confrontarsi con la feroce ansia di vincere che è alla base dei suoi trionfi sportivi e l’animalesco istinto di sopravvivenza che gli ha consentito di resistere anche all’inferno di Auschwitz.»
Non c’è fine all’orrore nei racconti di chi si è salvato, di chi è riuscito a voltare pagina, di chi ha deciso di vincere il dolore e l’oblio e di farsi testimone di una storia, la storia, che non deve più ripetersi.
Giornata della memoria: una sartoria per signora ad Auschwitz?
Ad Auschwitz furono deportate anche venticinque giovani donne: Irene, Bracha, Katka, Hunya… tutte ebree, per la maggior parte slovacche, intorno ai vent’anni – ma la più piccola ne aveva appena quattordici, la chiamavano “Gallinella” perché sfrecciava da una parte all’altra della stanza per andare a prendere gli spilli e raccogliere i fili con la scopa. A loro si aggiunsero alcune comuniste non ebree francesi, incarcerate per essersi opposte ai nazisti. Diventarono Le sarte di Auschwitz. La storia vera delle ragazze sopravvissute all’inferno grazie al loro talento, come recita il titolo e sottotitolo del saggio scritto dalla storica della moda Lucy Adlington, in libreria in Italia per Rizzoli. È un capitolo poco noto della storia della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto, che Adlington ha potuto ricostruire grazie a un lungo lavoro di ricerca negli archivi di svariate istituzioni internazionali che conservano la memoria dello sterminio, e grazie alla testimonianza diretta delle famiglie delle sopravvissute e di Bracha Kohút, l’ultima sarta sopravvissuta dell’atelier aperto nel campo di concentramento di Auschwitz, che Lucy Adlington ha potuto conoscere, prima della sua morte avvenuta il 14 febbraio 2021.
«Una sartoria per signora ad Auschwitz?», si chiede l’autrice nelle prime righe del volume. «La sola idea rappresenta un’orribile anomalia. La prima volta che vidi menzionato il “Laboratorio di alta sartoria” – Obere Nähstube, così veniva chiamato l’atelier –, mentre mi documentavo sui legami fra il Terzo Reich e il settore della moda per prepararmi a scrivere un libro sul mercato tessile internazionale negli anni della guerra, fu come ricevere una pugnalata».
E difatti, quando Lucy Adlington vola dal Nord dell’Inghilterra fino alla California per incontrare la signora Kohút, quest’ultima, accogliendola a casa sua, non lontano da San Francisco, le chiede: «Come facevi a crederci?».
Il laboratorio di sartoria per signora ad Auschwitz fu creato da Hedwig Höss, la moglie del comandante del campo.
«Queste donne tenaci tenute in schiavitù disegnavano, tagliavano, cucivano e ornavano abiti e capi di biancheria intima per Frau Höss e altre mogli di SS, creando indumenti meravigliosi per le stesse persone che le disprezzavano e le consideravano sovversive e subumane; le mogli di uomini impegnati attivamente a distruggere tutti gli ebrei e gli avversari politici del regime nazista. Per le sarte dell’atelier di Auschwitz cucire era una difesa contro le camere a gas e i forni.
Le prigioniere sfidarono i tentativi nazisti di disumanizzarle e degradarle tessendo i legami di amicizia e lealtà più incredibili. Mentre infilavano gli aghi e le macchine per cucire ronzavano, imbastivano progetti di resistenza, e persino di fuga.»
Bracha ha novantotto anni quando incontra Lucy Adlington; «riconosce spontaneamente la sua mancanza di fiducia nel genere umano», scrive l’autrice, «ma sprona comunque le giovani generazioni a costruire comunità unite accettando l’individualità e onorando la diversità».
Negli ultimi mesi della loro vita, «alcune sarte sentivano che le pareti dei compartimenti stagni in cui avevano ordinato con tanta cura le proprie emozioni stavano cedendo. Ritornarono con la mente ai ricordi felici dell’infanzia, ma anche a quelli terribili dei campi. L’amore e l’amarezza sono saldamente intrecciati.
Le loro parole, i loro punti, le loro storie non devono essere dimenticati.»
Auschwitz è di tutti: la testimonianza di Marta Ascoli
A leggere e rileggere le testimonianze di chi è stato arrestato dai nazisti e dai loro complici, di chi è stato tradito o denunciato, scovato nel nascondiglio, sorpreso nel mezzo di una fuga, catturato perché resistente, arrestato e imprigionato, di chi è stato umiliato e abbattuto, colpito nelle ossa e nell’animo, rinchiuso per essere deportato e nuovamente rinchiuso altrove per essere ucciso o costretto a lavorare come schiavo fino a morirne, si comprende la vastità di un’operazione di sterminio che era indirizzata all’annientamento dei corpi e, insieme, alle storie e ai legami che contenevano. (Matteo Corradini)
Marta Ascoli è stata una superstite dell’Olocausto. Nel 1944 aveva diciassette anni e non sapeva che quel momento della sua vita sarebbe coinciso con uno dei più bui del Novecento. La sua esistenza verrà travolta dall’irruzione delle SS nella casa della sua famiglia, per metà ebrea.
Pur di non abbandonare il padre, Marta salirà sola in un convoglio di uomini verso Auschwitz. E dopo Birkenau, Bergen-Belsen, la neve, i lavori forzati, le torture. Nonostante le difficoltà, la paura e la tristezza, Marta riesce a uscire viva dal lager nel 1945. A distanza di anni, Marta Ascoli decide di condividere la sua storia con tutti.