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ILVA, Taranto e industria: storie d’acciaio per capire il presente
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Redazione BookToBook
12 Nov 2019
L’ex ILVA di Taranto è un tema discusso, non solo sui giornali
Le acciaierie e le industrie sono luoghi simbolo. Svettano in alto cambiando la fisionomia del paesaggio e anche quella del mondo interiore.
Per questo entrano all’interno dei romanzi quasi fossero un personaggio tra gli altri.
Sulle loro superfici si riflettono, come su uno specchio, le storie dei lavoratori e delle loro famiglie, uomini e donne i cui destini si sono incrociati in maniera indissolubile con quelli dell’industria.
Ma spesso è uno specchio che restituisce un’immagine dolorosamente alterata di noi.
In questi giorni la politica e l’opinione pubblica italiana vedono un fervente dibattito sul destino dell’ex ILVA legato soprattutto al ruolo di Arcelor/Mittal, la società che sta paventando l’ipotesi di abbandonare lo stabilimento di Taranto (e quindi il governo italiano) se non verranno accettate le sue condizioni, tra le quali il massiccio licenziamento dei lavoratori.
Ma la questione dello stabilimento siderurgico è lunga decenni: per molti non ha prodotto solo acciaio, ma anche sogni, prosperità e orgoglio operaio. Per altri ha portato solo le polveri e i fumi che uccidono, è il “Mostro” che inquina il futuro delle vite che crescono nelle sue vicinanze.
C’è in ballo molto più che una negoziazione: quello dell’ex ILVA è un tema che riguarda lo sviluppo del Mezzogiorno, la politica, le connivenze con la criminalità organizzata, il mondo sindacale, i destini dei lavoratori di ieri e di oggi.
Non solo ILVA: le storie che nascono ai piedi delle industrie
Ci sono romanzi che attingono all’immaginario delle acciaierie e dalle raffinerie: il viaggio nei loro paesaggi ci conduce nelle periferie, tra le torri e i tralicci; le storie dei personaggi riflettono la società cresciuta nei centri industriali, con tutte le sue contraddizioni.
Spesso gli stabilimenti sono visti come Il Minotauro che vive a fianco e che a periodi richiede un sacrificio di vite umane.
Polveri dall’odore pungente che modificano i tessuti e le cellule dei polmoni, prendono a schiaffi il cuore senza fare differenze tra cardio e miocardio, che alla fine non sai se ti manca l’aria e ansimi e schiumi per lo sforzo, l’innamoramento o l’asma. Che si impastano con le piogge e vanno a corrodere la pietra dell’acquedotto romano che un tempo portava l’acqua fino a quel quartiere che prende il nome di Tamburi per via del suono del liquido in arrivo, e che ora è accostato alla grande Fabbrica […] Polveri microscopiche, invisibili, che accarezzano senza mostrarsi la veste dipinta della statua della Madonna Addolorata.
Girolamo De Michele, autore di culto del noir italiano, ha scritto Le cose innominabili, un romanzo in cui le polveri del Siderurgico di Taranto si depositano sopra ogni cosa. Sui volti della gente, sulle case, sulle esistenze ai margini. Nei polmoni.
È un libro estremamente attuale in questi giorni in cui si gioca il destino della fabbrica.
Si tratta di un poliziesco – fa parte della collana Nero Rizzoli – che ha per protagonista un’insegnante di liceo, Emma Battaglia, che la Bestia (è così che chiama la patologia causata dalla polvere) ce l’ha nel sangue. Respira da sempre l’aria di Taranto e lì prova a costruire un’esistenza migliore per sé e per i ragazzi che tenta di salvare dalla strada. Dalla prospettiva di Emma osserviamo il terremoto che scuote gli equilibri di potere ai piedi della Fabbrica, tra omicidi, guerre tra clan del crimine, sbirri corrotti. Su tutto la polvere che non solo contagia, ma distorce, annebbia e confonde, spostando sempre più in là il confine tra libertà e giustizia.
“A Taranto nemmeno i morti sono al sicuro”, scrive l’autore su Giap, discutendo quello che secondo lui è un falso dibattito sulla Fabbrica. Se si continua a ripetere come un mantra che la città non può sopravvivere senza il Siderurgico, si compromette la possibilità di costruire una visione alternativa per Taranto e per il Mezzogiorno, magari sganciata dal profitto, dallo sfruttamento cieco, dall’assenza di pianificazione industriale di lungo periodo.
Stiamo andando verso un futuro “nel quale, peraltro, i tarantini saranno probabilmente tutti morti, e sepolti in un cimitero nel quale le lapidi sono rosate, perché le bianche si tingono subito della polvere rossa della Fabbrica”.
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Sullo sfondo di Taranto e dell’ex ILVA ci porta anche Angelo Mellone, giornalista, scrittore e capostruttura Rai, con il suo Fino alla fine, “un romanzo basato su fatti veri, che non sono ancora accaduti.”
Dindo, Claudio e Valeria si ritrovano a Taranto dopo anni per il funerale di un amico.
La città li riaccoglie con il suo paesaggio straniante, con quei luoghi così familiari eppure ormai distantissimi nella memoria. Tornano ai loro ricordi e ai sogni infranti – la crescita, la militanza politica giovanile – ma tutto è estraneo. Forse nulla è cambiato davvero a Taranto, ma loro sì.
I destini dei personaggi e quelli della loro comunità continuano a sbattere come detriti su una spiaggia contro quello dello stabilimento. L’Ex Ilva rappresenta tutto ciò in cui hanno fallito: i tradimenti, le aspirazioni perdute, le promesse politiche di una classe dirigente corrotta, le rivendicazioni sindacali impossibili.
Mellone costruisce un romanzo che si regge sulla perdita, ma che nell’assenza riesce a dare l’idea del caos. Per anni abbiamo avuto l’illusione di costruire e invece è tutto inutile:
“Troppe volte ho visto morire questa città. Ogni volta è rinata sempre peggio. Non serve ammazzarla un’altra volta, caro ragazzo, l’alba del giorno dopo sarebbe peggiore del tramonto.”
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Nove anni fa, a precorrere il genere, è stata Silvia Avallone con Acciaio, uno degli esordi più sorprendenti della narrativa italiana, tre anni dopo l’uscita diventato anche un film.
Portandoci nella sua Piombino, tra i casermoni di via Stalingrado, l’autrice ci ha aperto lo sguardo sul mondo delle acciaierie che danno pane e disperazione alla città. Raccontando la vita di due adolescenti, ha tra i primi dipinto un’Italia operaia, inedita, dai più dimenticata.
Letto col senno di poi – scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera – Acciaio è un libro profezia: non solo perché in qualche modo ha anticipato la caduta delle frange rosse di Piombino (vista la recente elezione del sindaco Ferrari di Fratelli d’Italia), ma perché raccontava anzitempo un doloroso distacco, quello tra i padri, cresciuti a pane e industria, e i figli. Ai margini, una fabbrica che si fa sempre più grande e più fragile, indebolendo la società operaia nelle fondamenta.
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Tutti questi romanzi raccontano una domanda: c’è ancora speranza?
La Fabbriche, come Mostri dalle mille teste, sembrano essere state sempre lì, nate insieme alle coste e alle persone.
Ma se il vero Mostro dalle mille teste fossimo noi, chi ci proteggerà da noi stessi?