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La generazione ansiosa: come i social hanno rovinato la gen Z

«Nessuna azienda al mondo ci porterebbe via i figli e li metterebbe in pericolo senza il nostro consenso, con il rischio di esporsi a pesanti responsabilità. Sbaglio?». La domanda è tanto sensata quanto provocatoria e ce la pone Jonathan Haidt, psicologo sociale di fama mondiale, insieme a molti altri interrogativi che fanno del suo saggio appena arrivato in Italia per Rizzoli, La generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli, «una lettura urgente, che dovrebbe diventare un testo fondativo», come ha scritto il “Guardian”.

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La generazione ansiosa è un libro assolutamente necessario

Le tesi sostenute nel libro da Haidt, che insegna alla Stern School of Business della New York University, avevano già fatto scalpore alcuni mesi fa, al momento dell’uscita negli Stati Uniti, dove il libro si è conquistato il primo posto della classifica dei bestseller del “New York Times”, e ora produce il medesimo effetto anche qui in Italia, dove è appena arrivato in libreria con la traduzione di Rosa Prencipe e Lucilla Rodinò. Il sottotitolo, d’altronde, non consente equivoci, chiarendo subito in copertina come la pensa lui.

«Indiscutibilmente necessario» secondo il “New Yorker”, questo libro spiega quanto è accaduto alla generazione nata dopo il 1995, la cosiddetta Generazione Z o Gen Z successiva ai Millennial, ovvero i nati tra il 1981 e il 1995. «C’è chi afferma che la Gen Z termina con l’anno 2010 e propone il nome di Generazione Alfa per i nati dopo quella data, ma non credo che la Gen Z – la generazione ansiosa – avrà una data conclusiva finché non cambieremo le condizioni dell’infanzia che rendono i giovani tanto ansiosi», scrive Haidt nelle prime pagine, che vanno subito al cuore della questione. «All’inizio del 2000, le aziende tecnologiche con sede nella West Coast degli Stati Uniti crearono una serie di prodotti innovativi che sfruttavano la rapida crescita di internet. Si era diffuso una sorta di grande tecno-ottimismo: questi prodotti rendevano la vita più facile, più divertente e più produttiva. Alcuni aiutavano le persone a mettersi in contatto e comunicare, quindi sembrava probabile che rappresentassero un beneficio per il crescente numero di democrazie emergenti. Arrivata subito dopo la caduta della Cortina di ferro, pareva l’alba di una nuova era. I fondatori di queste aziende vennero acclamati come eroi, geni e benefattori universali che, come Prometeo, recavano doni divini all’umanità. Ma il settore tecnologico non stava trasformando solo la vita degli adulti. Iniziò a trasformare anche quella dei bambini».

Ma, si chiede Haidt, quali limiti legali abbiamo imposto finora a queste aziende tecnologiche?

La generazione ansiosa indaga il rapporto tra Gen Z e social media

È intorno al 2009, quando i membri più anziani della Gen Z entravano nella pubertà, che prendono largamente piede la diffusione della banda larga all’inizio degli anni Duemila, l’iPhone nel 2007 e la nuova era dell’iperviralità dei social media. Nel 2010 gli smartphone si dotavano delle telecamere frontali, nel 2012 Facebook acquisiva Instagram. «Questo ha fatto sì che aumentasse in modo esponenziale il numero di adolescenti che postano curatissimi video e foto della propria vita perché siano non solo visualizzati da coetanei ed estranei, ma anche valutati», scrive Haidt. È così che la Generazione Z è diventata «la prima della storia ad attraversare la pubertà con in tasca un portale che la distoglieva dalle persone vicine e la attirava verso un universo alternativo esaltante, instabile, che creava dipendenza» e, come dimostra Haidt nel libro, «non era adatto a bambini e adolescenti. Ottenere il successo sociale in quell’universo richiedeva ai ragazzi di dedicare gran parte delle energie, continuamente, alla gestione del proprio brand online. Era necessario per ottenere l’approvazione dei coetanei, che è l’ossigeno dell’adolescenza, e per evitare lo shaming online, l’incubo dell’adolescenza».

Spiega infatti Haidt che «le parti del cervello relative alla ricompensa maturano prima, ma la corteccia frontale – fondamentale per l’autocontrollo, la gratificazione differita e la resistenza alle tentazioni – non arriva alla piena capacità prima dei venticinque anni e i preadolescenti si trovano in un momento particolarmente vulnerabile dello sviluppo. All’inizio della pubertà, sono spesso insicuri dal punto di vista sociale, facilmente influenzati dalla pressione dei coetanei e attratti da qualsiasi attività che sembra offrire conferma sociale. Non permettiamo ai preadolescenti di acquistare tabacco o alcolici, o di entrare nei casinò. I costi dell’uso dei social media sono particolarmente alti per gli adolescenti in confronto agli adulti, mentre i benefici sono minimi».

La “Grande Riconfigurazione dell’Infanzia”, come la chiama Haidt, non riguarda però soltanto i cambiamenti delle tecnologie che modellano le giornate e la mente dei bambini. Secondo lo psicologo, esiste un altro elemento da considerare se davvero vogliamo capire cosa sta succedendo ai nostri figli: «La disastrosa, per quanto animata da buone intenzioni, tendenza all’iperprotezione e alla limitazione dell’autonomia dei bambini nel mondo reale. Per crescere in modo sano, i bambini hanno bisogno di una dose massiccia di gioco libero». Haidt propone quindi di considerare la fine degli anni Ottanta «come l’inizio della transizione da un’“infanzia fondata sul gioco” a un’“infanzia fondata sul telefono”» che, secondo lui, si è conclusa alla metà degli anni Dieci del Duemila, quando gran parte degli adolescenti aveva ormai un proprio smartphone (e tutti gli altri dispositivi elettronici connessi a internet).

Detto altrimenti: chi trascorreva i momenti di gioco e la vita sociale online, si ritrovava sempre più a frequentare spazi per adulti, assimilare contenuti per adulti e interagire con adulti in modi spesso pericolosi per dei minori.

La pornografia online ne è forse l’esempio più eclatante: nel suo saggio Non farti fottere. Come il supermercato del porno online ti ruba fantasia, desiderio e dati personali, Lilli Gruber, giornalista tra le più note e autorevoli nonché conduttrice della trasmissione televisiva di successo Otto e mezzo, fotografa uno scenario inquietante, una porn economy che mette a rischio innanzitutto i più giovani. Un dato, fra tutti quelli citati da Lilli Gruber nel suo libro uscito a maggio con Rizzoli, è particolarmente allarmante: secondo lo studio di un istituto di ricerca statunitense che a fine 2022 ha intervistato oltre 1300 ragazze e ragazzi tra i tredici e i diciassette anni, è in media all’età di dodici anni che si accede per la prima volta a contenuti pornografici online.

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La tesi centrale sostenuta da Haidt nel libro, che si avvale dei risultati di numerose ricerche tra le più recenti effettuate negli Stati Uniti, è dunque che l’iperprotezione nel mondo reale da una parte e la scarsa protezione nel mondo virtuale dall’altra sono tra le principali ragioni per cui i bambini nati dopo il 1995 sono diventati una generazione ansiosa.

Il nuovo saggio di Lilli Gruber delinea il quadro della porn economy

Nel suo nuovo saggio L’età dello sballo. Giovani, droghe, psicofarmaci, tra conformismo e dipendenza, in libreria dal 27 agosto per Rizzoli, Laura Pigozzi, psicologa clinica e forense e psicoanalista, autrice tra gli altri di Troppa famiglia fa male, oltre a mostrare una via nuova per comprendere e disinnescare le dipendenze, invita a una riflessione sull’incremento del malessere mentale tra i giovani così come sulle dinamiche famigliari che possono esserne all’origine. «Le droghe, gli psicofarmaci usati a scopo ricreativo e le dipendenze varie proliferano seguendo l’andamento del malessere di adolescenti e giovani a cui abbiamo assicurato il maggior benessere di sempre», scrive Pigozzi. «I genitori contemporanei hanno cercato di dare tutto ai figli e ora si trovano con adolescenti che hanno i peggiori risultati in termini di disagio mentale: se ne stima quasi il 50 per cento in più, rispetto a qualsiasi altra generazione di cui abbiamo dati a disposizione». I genitori e gli operatori, secondo l’autrice de L’età dello sballo, «non si sono ancora sufficientemente accorti che l’eccesso di attaccamento, di zelo e di presenza invasiva – in una parola, di plusmaterno famigliare – sta creando patologie gravissime e nuove, che non sappiamo ancora affrontare in maniera convincente e strutturata, tra cui insicurezze letali che gli adolescenti credono di poter riparare con l’uso di sostanze».

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Ne La generazione ansiosa sono presenti diversi studi su svariate fasce d’età

«So che gli adolescenti con disturbi depressivi o di ansia non possono semplicemente “reagire” o decidere di “farsi forza”», dice Jonathan Haidt, rivelando di aver sofferto egli stesso di un periodo di ansia prolungato, in tre momenti distinti della sua vita. «Perciò posso in parte comprendere quello che vivono molti giovani». Lo psicologo spiega che questi disturbi sono causati «da una combinazione di geni (alcune persone sono più predisposte di altre), schemi mentali (che possono essere sia appresi sia innati) e condizioni sociali o ambientali. Ma poiché i geni non sono cambiati tra il 2010 e il 2015, dobbiamo capire quali schemi mentali e condizioni socioambientali sono cambiati per causare quest’ondata di ansia e depressione».

Perché la dipendenza materna crea pessimi cittadini

I risultati degli studi condotti negli ultimi anni su svariate fasce d’età delle generazioni più giovani lasciano pochi dubbi sull’aggravarsi di un malessere diversificato e stratificato – ansia, privazione del sonno, frammentazione dell’attenzione, dipendenza, solitudine, paura del confronto sociale, autolesionismo, istinto suicidario – che sta drammaticamente dilagando negli Usa così come altrove. Un dato su tutti sconvolge: secondo una ricerca, tra il 2004 e il 2020 la depressione tra i teenager (12-17 anni) statunitensi è cresciuta del 145 per cento tra le femmine e del 161 per cento tra i maschi.

Cosa è mai accaduto ai teenager nei primi anni Dieci del Duemila?, si chiede allora Haidt. Per capire chi soffre di cosa e da quando, il lavoro di Haidt e del suo team, illustrato nelle pagine de La generazione ansiosa, parte da un primo indizio:

«La crescita riguarda soprattutto disturbi legati ad ansia e depressione, entrambe classificate nella categoria psichiatrica dei disturbi internalizzanti. Si tratta di disturbi in cui una persona prova una forte afflizione e ne avverte i sintomi interiormente. La persona con un disturbo internalizzante prova emozioni quali ansia, paura, tristezza e disperazione. Tende a rimuginare e spesso si isola socialmente». Al contrario, spiega ancora l’autore, «i disturbi esternalizzanti sono quelli in cui una persona prova afflizione e rivolge i sintomi e le reazioni esternamente, verso gli altri. Rientrano in questa categoria il disturbo della condotta, la difficoltà a gestire la rabbia e le tendenze alla violenza e a un’eccessiva esposizione al rischio. In tutte le età, culture e Paesi, le bambine e le donne soffrono di tassi più elevati di disturbi internalizzanti, mentre i bambini e gli uomini soffrono in misura maggiore di disturbi esternalizzanti».

In queste settimane, in Italia, l’opinione pubblica è stata scossa dalla strage compiuta nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre a Paderno Dugnano, in provincia di Milano, dove un diciassettenne ha ucciso a coltellate la madre, il padre e il fratellino. Mentre scriviamo queste righe, i giornali danno la notizia di un altro fatto di cronaca: a Gagliole, nel Maceratese, un diciannove ha accoltellato il padre e la madre prima di rivolgere l’arma contro se stesso.

Nei giorni scorsi dalle pagine della “Repubblica” un’altra autorevole giornalista italiana, Concita De Gregorio, ha scritto: «I figli vengono al mondo neonati, si sa, e vergini di consegne dunque in principio non imputabili, non colpevoli. Crescono in quel che gli si offre, siamo noi ad apparecchiare (metaforicamente e non solo) la tavola. La fragilità degli adulti, ossessionati dalla fragilità dei figli. Il disagio dei figli, ossessionati dalle cure e dalla saturazione preventiva dei bisogni. E poi l’isolamento, e poi la vita virtuale e la disabitudine al contatto dei corpi coi corpi vivi, delle parole con le parole dette». De Gregorio cita il libro di Haidt: «Si prevede un successo editoriale alimentato dal senso di smarrimento e di colpa. In verità», pensa la giornalista, «le risposte non ci sono, o ce ne sono troppe che è uguale».

La generazione ansiosa non dà risposte ma fa riflettere

Il libro di Jonathan Haidt non ha la pretesa di dare delle risposte alle domande che certi fatti pongono alla gente comunque così come alle persone deputate a occuparsene ai vari livelli. Come spiega l’autore stesso, «questo libro non è solo per i genitori, gli insegnanti e chiunque si occupi o abbia a cuore i bambini. È per tutti coloro che vogliono comprendere come la più fulminea riconfigurazione della coscienza e delle relazioni umane della storia ci abbia reso più difficile pensare, concentrarci, dimenticare noi stessi quel tanto che serve per occuparci degli altri e costruire relazioni intime. La generazione ansiosa è un libro su come riappropriarsi della vita dell’uomo per gli esseri umani di ogni generazione».

Nel riportare alcune storie raccontategli dai genitori di adolescenti, tutte incentrate sul tentativo da parte degli adulti di limitare l’uso di smartphone, social media e videogiochi da parte dei figli, Haidt rileva un tratto comune, che chiama “conflitto costante”: «I genitori tentano di stabilire delle regole e imporre dei limiti, ma ci sono così tanti dispositivi, così tante discussioni su come le regole debbano essere meno severe e così tanti modi di aggirarle, che la vita familiare finisce con l’essere dominata dai dissensi sulla tecnologia. Si ha l’impressione che mantenere i rituali familiari e i legami umani fondamentali sia come opporsi a una marea inarrestabile che sommerge genitori e figli». Un altro tratto comune che Haidt rintraccia nei dialoghi con i genitori è la loro sensazione di essere intrappolati e impotenti: «Gran parte dei genitori non vuole che i figli abbiano un’infanzia fondata sul telefono, ma in un certo senso il mondo si è riconfigurato e i genitori che si oppongono condannano i figli all’isolamento sociale».

In conclusione, Jonathan Haidt arriva dunque a proporre quattro “riforme” collettive che i governi, le aziende tecnologiche, le scuole e i genitori possono attuare affinché si ricostruiscano le basi di un’infanzia più sana, invertendo la rotta per ripristinare un’infanzia basata sul gioco anziché sul telefono. Niente smartphone prima delle scuole superiori è la prima di queste azioni suggerite dallo psicologo sociale: prima dei quattordici anni, è la sua proposta ai genitori, si potrebbero dare ai figli solo telefoni con app limitate e senza browser per navigare su internet. Seconda riforma: niente social media prima dei sedici anni: «Lasciamo che i ragazzi attraversino il periodo più vulnerabile dello sviluppo cerebrale prima di essere sottoposti alla pressione dei social e a influencer selezionati da un algoritmo», dice Haidt. Terza idea, di cui peraltro si sta discutendo anche in Italia: a scuola senza cellulare, «l’unico modo per liberare la loro attenzione e indirizzarla verso gli altri ragazzi e gli insegnanti». Infine, quarta riforma: molto più gioco senza supervisione e indipendenza. È così che i bambini, secondo l’autore, «sviluppano in modo naturale le abilità sociali, superano l’ansia e diventano giovani adulti autonomi».

Dalle colonne del “Corriere della Sera”, Walter Veltroni li definisce «saggi consigli». A proposito del libro di Haidt, scrive: «Il problema è reale, di fondo e merita una discussione. Non bisogna accettare il catastrofismo dei nemici delle tecnologie, dei luddisti della evoluzione scientifica, ma cercare di distinguere le opportunità della rete dalle distorsioni dei social. Ci deve preoccupare l’affermarsi di una sollecitazione costante al pensiero puramente binario, alla rimozione della complessità e, ancora di più, dell’accoglienza del pensiero e dell’identità altrui. Il libro di Haidt dovrebbe essere discusso in classe, e letto tra genitori e figli».

Jonathan Haidt, padre di due figli, sa «quanto sia dura essere un genitore di questi tempi. O anche un insegnante, un dirigente scolastico, un allenatore o chiunque lavori con bambini e adolescenti. È ancora più dura essere un adolescente. Ci stiamo tutti sforzando di fare del nostro meglio, alle prese con informazioni incomplete su un mondo tecnologico in rapida evoluzione che sta frammentando la nostra attenzione e cambiando le nostre relazioni. È difficile per noi capire quanto sta accadendo o sapere cosa fare a riguardo. Ma dobbiamo fare qualcosa».