L’odio è la malattia sociale del nostro tempo, stravolge coscienze e rapporti umani, si impadronisce delle nostre parole, è il grande incubatore della violenza.
Il nuovo libro di Walter Veltroni è un viaggio nell’universo dell’odio che parte da un passato a cui dobbiamo impedire di ritornare per approdare a un difficile presente segnato da una decrescita tutt’altro che felice, dalla mancanza di prospettive per i giovani in un Paese di vecchi, dalla paura di un futuro in cui a lavorare saranno le macchine e ad accumulare profitti i giganti tecnologico-finanziari.
L’odio sembra una valvola di sfogo, ma in verità ci rende schiavi, ci impedisce di comprendere la realtà, ci fa sentire più soli e infelici.
E fa vacillare la democrazia.
“Se noi che odiamo l’odio troveremo le parole giuste, allora la libertà avrà un futuro. E nel futuro ci sarà libertà.”
da Odiare l’odio di Walter Veltroni
Nel nostro tempo è facilissimo smerciare l’odio. Esiste un’industria, per questo. Esistono delle centrali dell’odio. La diffusione di certi sentimenti, di certi argomenti, di certi nemici avviene su scala planetaria. Avviene seguendo una sorta di invisibile protocollo (o forse ben visibile, a pensarci) in base al quale si devono dire certe cose, attaccare alcuni argomenti, alcune idee, alcuni valori, contrapporsi a essi senza la misura delle parole.
Prendiamo il tema dell’immigrazione. È chiaro che il problema esiste, è chiaro che bisogna armonizzare inclusione e sicurezza, è chiaro che bisogna avere una posizione europea che suddivida maggiormente e in maniera più equilibrata il carico che grava su un Paese come il nostro, a così poca distanza da quelli dai quali si scappa perché c’è la guerra o la fame. Io sono andato a Ellis Island, dove arrivavano gli emigranti italiani, e ho trovato le foto che erano nascoste nelle valigie dei nostri nonni o bisnonni. Sono esattamente le stesse che ci sono nelle valigie, quando le hanno, degli africani che arrivano qui. In questo Paese, ora ammalato di odio, si è discusso per settimane di quarantadue esseri umani che stavano su una nave. E siamo arrivati persino a sostenere, cosa estranea non solo al diritto del mare o alla nostra tradizione giuridica ma alla nozione stessa di umanità, che se una persona sta per annegare noi possiamo negarle il soccorso. Nella nostra storia, se una persona è in difficoltà, se una persona sta rischiando la vita, si allunga la mano e la si trae in salvo. Siamo fatti così, siamo sempre stati fatti così. Siamo esseri umani.
Oggi ci sembra quasi normale che si possa insultare su un treno o su un autobus un ragazzo che ha un colore della pelle diverso dal nostro o che sia quasi legittimo cospargere di benzina e poi dare fuoco a un uomo che la vita ha relegato sulla panchina di una stazione, senza casa né affetti. O scagliarsi – moderna versione della caccia agli untori – contro un popolo intero, quello cinese, se in quella lontana nazione si genera un nuovo virus. È successo, succede ogni giorno nel nostro civilissimo Paese. E se noi perdiamo la capacità di indignarci, se noi non ci stupiamo più, se ci sembra tutto normale, è già cominciata la fine. Noi dobbiamo recuperare l’indignazione, quell’indignazione civile che non è fatta di violenza di linguaggio, ma del suo contrario.
Mi permetto di dire anche a chi ha opinioni non diverse dalla mia: smettetela di urlare, anche voi. Smettetela di scivolare su questo piano, di rincorrere chi la dice più grossa, chi la spara più offensiva nei confronti dell’altro. Se gli altri insultano, se gli altri urlano, tu devi parlare il linguaggio della ragione, devi cercare di far capire, devi far intendere all’opinione pubblica che qualcuno vuole escludere gli altri mentre qualcuno vuole includere gli altri. Devi, in poche parole, coltivare un’«alterità civile».
E non basta più rinserrarsi nelle trincee del politicamente corretto, immaginandolo come un bastione dal quale rovesciare olio bollente contro chi non si adegua. La rigidità, spesso feroce, del politicamente corretto finisce col ridurre la libertà, anche quella di opinione. E l’avversione a questo «codice» ha non di rado fornito alla destra più irresponsabile la licenza di dire cose inaudite presentandole come una forma di libertà. Tutto il linguaggio di Trump ha queste caratteristiche.
C’è una frase che non sento più da anni, in nessuna discussione. È una frase che mi ha sempre colpito, e mi piace proprio il suo suono. Apro e chiudo le virgolette: «Anche questo è vero».
«Anche questo è vero» significa: io ho un’idea, sto parlando con te, tu mi stai dicendo una cosa diversa da quella che ti ho detto io, da quello che io penso, ma io riconosco in quello che dici quel frammento di verità, chiamiamolo così per un attimo, che fa sì che io lo incorpori, che accolga il tuo dono, e lo porti dentro di me. Così da far diventare il mio pensiero un pensiero nuovo, che è nuovo solo perché io ho incontrato l’altro da me.
Quante volte ci è capitato nella vita di riconoscere di aver sbagliato, di dire, magari solo dentro di noi, che aveva ragione quella persona, fosse una moglie, un figlio, un amico, un uomo politico, un intellettuale, che diceva una cosa che in quel momento ci appariva inaccettabile? Quante volte l’umiltà dell’intelligenza deve accettare la parzialità delle proprie radicate convinzioni espresse nel tempo? Ci sono, ogni giorno, tante circostanze nelle quali gli altri hanno più ragione di te.
E se tu sei non una spugna, ma un muro, finirai con l’arroccarti. Alla fine i muri generano una società chiusa, asfissiante. Lo ha detto papa Francesco: chi costruisce muri rimane da solo. E noi siamo tornati nel tempo dei muri, dei dazi, dei nazionalismi, siamo tornati all’idea che il mondo possa essere dominato dall’esclusivo interesse del singolo o di una collettività nazionale che si asserraglia in se stessa. Asserragliarsi significa inevitabilmente, prima o poi, scagliarsi contro l’altro.
Stiamo vivendo questo tempo.
Un tempo di egoismo sociale, di odio furbastro, di scollamento sociale, di crisi della democrazia. Ma questo è il nostro tempo. Non ne abbiamo un altro, certo non lo abbiamo nel passato. A me non piacciono i leader carismatici, quelli che fanno tutto da soli o pensano di essere il centro del mondo. Mi piace quando succede qualcosa di enorme, di inedito nella storia di un Paese, e cioè che degli esseri umani in qualsiasi luogo, in qualsiasi comune, in qualsiasi azienda, in qualsiasi scuola si sentano razionalmente ed emotivamente partecipi di una ragione per la quale valga la pena di spendersi e di cercare di conquistare altri alla stessa causa.
E questo è il tempo in cui va fatto, perché se all’odio si contrappone altro odio, la paura o l’omogeneizzazione dei linguaggi, allora l’odio vincerà.
Perché l’odio è più forte.
L’odio agisce sul fegato, l’odio agisce nel determinare le risposte più semplificate.