American War, l’esordio di Omar El Akkad, «intenso e terrificante» come lo ha definito il Washington Post, ci mostra un futuro molto vicino, un paesaggio immaginato eppure sempre più realistico, lo scatto vivido, inquietante, di cosa potrebbe accadere se gli Stati Uniti usassero su se stessi le loro devastanti politiche, contro gli americani le armi dei loro eserciti.
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Leggi un estratto da American War, di Omar El Akkad
Quand’ero giovane, collezionavo cartoline. Le tenevo in una scatola da scarpe sotto al letto, in orfanotrofio. Poi, quando mi trasferii nella mia prima casa, a New Anchorage, misi la scatola in fondo a un vecchio barile, dentro alla catapecchia che usavo come rimessa per gli attrezzi. Ho passato tutta la mia vita a studiare la storia della guerra, e collezionare quelle immagini del mondo com’era prima, immerso in una quiete ideale, mi restituiva una sorta di equilibrio.
Ho anche pensato di sbarazzarmi del barile, qualche volta. Temevo che qualcuno, magari un mio collega dell’università, potesse vederlo, e scambiarlo per la reliquia di un nostalgico, alla stregua di una bandiera secessionista o della carcassa di un vecchio coupé, di quelli che una volta i Rossi esibivano davanti casa – simboli inoffensivi di rivolta, testimonianze di un passato rovinoso e ormai in rovina. In fondo, sono Sudista di nascita. E anche se mi sono trasferito in uno Stato neutrale quando avevo sei anni, e non ho mai parlato con nessuno della mia prima infanzia, non potevo escludere che qualche mio collega nutrisse la segreta convinzione che un po’ di sangue Rosso mi ribollisse ancora nelle vene.
Le cartoline che preferisco sono quelle degli anni Trenta e Quaranta del Duemila – gli ultimi venti prima che il pianeta si accanisse contro il Paese, e il Paese contro se stesso. Riproducono le grandi spiagge davanti all’oceano, prima che fossero sommerse dalle acque; i territori di sud-ovest prima che finissero in cenere; e le pianure centro-occidentali, vuote e sterminate sotto il cielo azzurrissimo, prima che l’Esodo interno le riempisse di sfollati arrivati dalla costa. Sono un ritratto dell’America della prima metà del ventunesimo secolo; prospera, ruggente e inconsapevole.
Ricordo ancora la prima che comprai. Era una cartolina della vecchia Anchorage. Il lungomare era coperto da una fitta coltre di neve, l’acqua della baia punteggiata di scaglie di ghiaccio, il sole basso sopra le montagne.
Avevo sei anni quando vidi per la prima volta il sole tramontare in Alaska. Ero sul ponte del gozzo di un contrabbandiere, un ragazzo con la faccia cotta dal sole, un profugo georgiano. Ricordo la strana sensazione dei fiocchi di neve che mi si posavano sulle sopracciglia, i denti che battevano fuori controllo: per la prima volta da quand’ero nato, sentivo freddo. Vidi quel tuorlo d’uovo congelato sospeso in cielo appena sopra le montagne, e pensai di essere arrivato ai confini del mondo. Là dove ogni cosa si ferma per sempre.
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Io appartengo alla cosiddetta «generazione miracolo»; ovvero i nati tra il 2074, che segnò l’inizio della Seconda guerra civile americana, e il 2095, che ne vide il termine. Alcuni estendono ulteriormente la definizione, includendovi anche i nati nei dieci anni di epidemia che seguirono la fine della guerra. Molte generazioni di questo Paese hanno preso il nome dai conflitti che avrebbero dovuto sterminarle – e la mia non fa eccezione. Noi siamo i pochi scampati alla furia degli attentatori omicidi e dei Corvi da guerra; i pochi che trovarono riparo in qualche cantina ben equipaggiata o nei rifugi anti-tornado, prima che il Morbo della riunificazione si diffondesse in tutto il continente. I pochi fortunati, in fin dei conti.
Ho dedicato tutta la mia carriera accademica a studiare la sanguinosa guerra che questo Paese ha condotto contro se stesso. Ho scritto saggi e articoli per riviste specializzate, organizzato miriadi di simposi e tavole rotonde. Ho studiato tutte le fonti storiche sopravvissute fino ai nostri giorni: i rapporti congressuali, le testimonianze orali, i racconti strazianti dei superstiti dell’epidemia. Ho ricostruito gli sciagurati eventi del Giorno della riunificazione, quando uno degli ultimi ribelli del Sud riuscì a introdursi nella capitale dell’Unione e a diffondere il morbo che precipitò il Paese in un decennio di morte. Si stima che undici milioni di persone siano decedute nel corso della guerra, e quasi dieci volte tante a causa della successiva epidemia.
Ho ricevuto innumerevoli lettere da parte di lettori e detrattori che discordavano su singoli dettagli storici – contestando che i ribelli fossero davvero responsabili di un certo attentato, o che questo o quel massacro fosse stato davvero orribile come sosteneva la propaganda sudista. I miei fascicoli contengono centinaia di corrispondenze di questo genere – tutte variazioni sullo stesso tema: ossia che un Nordista di New Anchorage come me, cresciuto nella bambagia, appartenente a un’élite neutrale che non ha conosciuto un solo giorno di conflitto, non può avere la minima idea di cosa sia stata la guerra.
Ma io so delle cose che nessun altro conosce. Le so perché è stata lei a dirmele. E questa consapevolezza mi rende complice.
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Ora che la mia vita volge al termine, mi dedico a ispezionare questi piccoli reperti accumulati in gioventù. L’ho ritrovata da poco, la prima cartolina che acquistai. Sono passati più di cent’anni da quando quella foto è stata scattata; di quel paesaggio, oggi, non restano che le montagne e il mare. New Anchorage, che un tempo era una distesa di edifici bassi e quartieri residenziali adagiati ai piedi delle colline, con gli anni si è spostata verso l’entroterra. Le banchine a cui approdai spaesato, orfano di guerra, sono state alzate e rinforzate più e più volte. E dove un tempo c’erano i pontili di legno nodoso, oggi si ergono delle piattaforme modulari, progettate per essere rapidamente smantellate e rimontate. Senza preavviso, sulla città si abbattono violente bufere.
Di tanto in tanto vado a fare due passi sul lungomare, oltre il pontile e la baia. A meno che non prenda a noleggio un gozzo, di più non posso avvicinarmi al luogo del mio primo approdo in questa terra neutrale. Il mio medico dice che mi fa bene camminare ogni giorno, e che dovrei continuare a farlo, finché non mi provoca dolori. Sospetto che si tratti di uno di quei palliativi che propina ai suoi pazienti terminali, che già da un pezzo non si sentono più dire: «Le darà sollievo», ma solo: «Male non farà».
Morire è una strana cosa. Per lungo tempo ho pensato che la mia vita sarebbe terminata di colpo, non appena l’epidemia avesse raggiunto il Nord o i Rossi fossero tornati a ribellarsi, precipitandoci in un nuovo scontro fratricida. Invece mi è toccata la più banale delle morti, per un eccesso di cellule difettose. Una volta ho letto da qualche parte che un cancro moderatamente aggressivo garantisce, a conti fatti, una morte accettabile – poiché non comporta lunghi anni di sofferenze, e lascia al malato il tempo per sistemare tutto il necessario, e dire ciò che va detto.
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Ormai sono anni che non nevica: eppure, di tanto in tanto, verso la fine di gennaio, sui vetri delle finestre inizia ad arrampicarsi qualche frattale di ghiaccio. In quei giorni mi piace andare sul lungomare, a guardare il mio respiro che si addensa nell’aria. Mi sento come sgravato di un peso. E non ho più paura.
Mi fermo a contemplare l’acqua dal bordo del pontile. Penso a tutte le cose che si è portata via, e a tutto quello che mi ha tolto. A volte resto a guardare il mare per ore e ore, ben oltre il tramonto, finché non mi ritrovo altrove, al di là del tempo e dello spazio: e torno al povero Paese dove sono nato – alla terra dei Rossi.
Ed è allora che la rivedo emergere dall’acqua. È esattamente come la ricordavo, il gigantesco corpo di bronzo, la schiena attraversata dalle cicatrici color cenere, testimonianza di ogni singola tortura che le è stata inflitta, di ogni indicibile crimine commesso contro di lei. Si erge dalla superficie del mare come un monolito di carne, riemerso dal ventre squarciato del Savannah. E torno a quand’ero bambino, a prima che mi rapisse alla mia casa e ai miei genitori, a prima che mi tradisse. Torno alla mia terra in riva al fiume, e sono felice, e continuo a volerle bene. Questo è il mio segreto – che le voglio bene ancora.
Questa storia non parla di guerra. Parla di rovine.