«La voce dell’infanzia in tempo di guerra»: così il suo editore ha definito John Boyne. «È una descrizione che mi ha gratificato e sorpreso al tempo stesso: non credo di aver ancora guadagnato quel titolo, e di certo ho ancora molta strada da fare prima di lasciare un segno significativo in questo campo, come Michael Morpurgo.»
In un articolo per il sito di Waterstone scriveva:
Il ruolo dei bambini in tempo di guerra e l’effetto che ha su di loro mi affascina. Gran parte dei successi e dei fallimenti nella nostra vita adulta dipendono dalla felicità e dal senso di sicurezza che abbiamo vissuto da piccoli, e l’imposizione di esperienze così terribili a quell’età ha sicuramente un effetto negativo anche sugli animi più forti.
In genere tengo i miei giovani protagonisti lontani dall’azione: cercano di capire cosa succede e cosa gli adulti non intendono spiegare loro attraverso una combinazione di ingegno e osservazione. Ne Il bambino con il pigiama a righe, Bruno guadagna lentamente comprensione sugli orrori delle morti nei campi di concentramento attraverso le conversazioni con Shmuel, l’ebreo prigioniero dall’altra parte del recinto. In Resta dove sei e poi vai, Alfie Summerfield lucida scarpe alla stazione di King’s Cross e scopre così l’eccitazione dei giovani soldati che vanno per la prima volta in guerra nel nord della Francia e le storie di chi ha appena fatto ritorno, traumatizzato. In Il bambino in cima alla montagna volevo approfondire l’idea di lavaggio del cervello, della semplicità con cui si finisce per trovarsi coinvolti in qualcosa più grande di noi e si perde il senso del bene e del male, su cui prevale il desiderio di appartenenza, il bisogno di sentirsi accettati.
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