Con il protrarsi della pandemia e del lockdown diversi studi hanno evidenziato come siano gli adolescenti la categoria più colpita per via delle restrizioni imposte dal Covid-19. Ansia, depressione, stress, solitudine: una cura è possibile o come dice Tamar nel romanzo In una scala da 1 a 10 «Non ce ne sono. Tranne una: la cura sono io.»? Come si fa a spiegare agli adolescenti di oggi la malattia mentale? Come si fa a fargli capire che chiedere aiuto non è sinonimo di debolezza? Che, anzi, al contrario, può fungere da gesto liberatorio per intraprendere il cammino della guarigione? Lo si può fare parlando, documentandosi, raccontando o leggendo storie, proprio come quella scritta da Ceylan Scott.
“Come ti senti oggi in una scala da 1 a 10?” chiede spesso il dottor Flores a Tamar, protagonista e voce narrante di In una scala da 1 a 10, primo romanzo Young Adult di Ceylan Scott, giovane autrice che ha sofferto di problemi mentali durante la sua adolescenza. Un racconto commovente e sarcastico che tratta con sensibilità e delicatezza tematiche complesse e, purtroppo, sempre più attuali come la malattia mentale, l’anoressia, l’autolesionismo, il suicidio.
La malattia mentale nel libro In una scala da 1 a 10
Tamar, ex atleta di corsa campestre, ha sedici anni ed è appena diventata una delle pazienti di Lime Grove, centro di cura di malattie psichiatriche per adolescenti.
Com’è iniziato il mio comportamento autolesionistico? Ci vuoi dire che cos’è successo? Sai che il tuo comportamento non è normale, vero? Lascia che ti aiutiamo. Solo tu puoi aiutare te stessa. Come ti senti, in una scala da uno a dieci?
Tamar è andata in crisi dopo la morte della sua amica Iris, evento di cui si crede colpevole. Dopo quel tragico episodio Tamar non è più la stessa, fa finta che vada tutto bene, ma in realtà sente solo un vuoto disperato dentro di sé che la porta a farsi male e a tentare il suicidio: è convinta che non meriti di vivere e non può smettere di desiderare di sparire dal mondo. La cosa peggiore è non riuscire a comunicare ciò che prova alla sua famiglia, agli amici e anche al personale medico.
Se sbattete la testa contro la superficie più dura che trovate, i pensieri brutti vi rimbalzano nel cranio così a lungo che gli ci vuole tempo per riformarsi. È come quando un autobus si ferma all’improvviso e la spesa vi schizza dappertutto, così siete costretti a frugare tra le gambe di estranei, desiderando di non aver comprato così tanto riso adesso che la borsa si è strappata. Riuscite effettivamente a sentire i pensieri che si spaccano contro le ossa. La superficie più dura, in un ospedale psichiatrico, è la parete della camera da letto. Se ci sbattete contro la fronte abbastanza forte, sanguina sottopelle e i lividi sono gonfi e doloranti, ma almeno i pensieri scompaiono per una frazione di secondo. Bam. Un momento di vuoto. Bam. Un momento di serenità e calma e quiete.
In un alternarsi di flashback scopriamo la vita di Tamar prima della morte di Iris. È una ragazza come tante, vive con i genitori e il cane Brew, frequenta le superiori, si allena, esce spesso con Toby, che conosce da quando aveva quattro anni, e Mia, amica storica dalle elementari con cui però ha sempre avuto alti e bassi per via della sua prepotenza. Di Iris, Tamar ci dice che era molto timida, «aveva frequentato tre scuole in un solo anno. All’inizio non parlava molto, si teneva impegnata in fondo alla classe tracciando ghirigori complicati negli angoli dei libri di testo con una stilografica rossa che grattava la carta. Portava i capelli divisi in due trecce alla francese ben tirate intorno alle orecchie». Quando un giorno Tamar le dà un suggerimento per un disegno rovinato da Mia, Iris non si staccherà più da lei. Dalla descrizione e dai racconti della protagonista si evince la debolezza di Iris, una figura permeata da una tristezza di cui non parla con nessuno, nemmeno con Tamar.
Il giorno della sua morte le due erano insieme, avevano bevuto alcolici in riva al fiume, ubriache si erano incamminate verso casa, o almeno Tamar era sicura che Iris avrebbe preso il bus per rientrare e invece… il corpo di Iris viene trovato lungo il fiume: nero, macchiato d’olio e maleodorante. È dopo il ritrovamento del cadavere che il mostro comincia a palesarsi a Tamar, prima con un paio di forbicine per unghie, un graffietto e un “ahi”, per poi crescere sempre di più. A scuola nessuno le rivolge più la parola, neanche Mia, troppo spaventata dai continui sbalzi d’umore della protagonista.
La caduta era già cominciata.
Tutti sapevano. Lo capivano da come le voragini sotto i miei occhi sembravano scuri tulipani contro le linee ruvide della mia pelle. L’azzurro anemico dei miei bulbi oculari.
Scott descrive con dovizia di particolari le sensazioni provate da Tamar: la paura, il senso di vuoto, l’incapacità di comunicare dolori e sensi di colpa tipici dell’adolescenza. Inoltre, l’autrice non risparmia dettagli di scene forti come quando Tamar si taglia o decide di suicidarsi.
Continuai a esercitarmi con nodi e cappi sul pavimento della stanza finché non diventai brava quanto
un marinaio; brava quanto gli abitanti delle acque in persona. Poi mi domandai se morire fosse doloroso, ma Google non seppe darmi la risposta. Mi domandai se affogare fosse doloroso. Mi interrogai su paradiso e inferno e reincarnazione. Mi chiesi se fosse il momento di pentirmi dei miei peccati, e sarebbe servito a qualcosa? Implorare perdono sarebbe servito a qualcosa?
Tutte le facce della malattia mentale a Lime Grove
Dopo il tentativo di suicidio Tamar viene internata a Lime Grove dove incontra Jasper, Alice, Will, Elle e altri ragazzi come lei, affetti da disordini alimentari, disturbo bipolare, paranoia. A Lime Grove le regole sono ferree, i pazienti non possono parlare tra di loro dei propri disturbi e «Ci hanno anche proibito di giocare all’impiccato» dice Alice a Tamar dopo aver fatto la sua conoscenza.
Controllati costantemente dal personale sanitario, i pazienti con problemi psichici non hanno molte libertà a parte condividere il tavolo a mensa e qualche permesso d’uscita (per tornare a casa o fare un giro in città coi genitori) concesso dal dottor Flores, medico con cui i ragazzi e le ragazze del centro conversano giornalmente.
È lui che chiede “Come ti senti oggi in una scala da 1 a 10?”, persona attenta e molto placida che tratta i suoi pazienti in modo rigido e amichevole al tempo stesso, comprende le difficoltà che gli adolescenti vivono, li lascia sfogare, rispondere male, gli permette di essere semplicemente se stessi, ben conscio che i disturbi mentali non spariscono da un giorno all’altro.
Il dottor Flores è un personaggio molto umano, che mantiene sempre una certa lucidità e qualche volta spiazza non solo Tamar ma anche il lettore. Come quando la protagonista torna a casa per una sera e va a una festa in cui si ubriaca:
«Dunque… E la visita a casa, Tamar? Ho sentito che sei andata a una festa» dice il dottor Flores con aria compiaciuta.
«Esatto.»
«È stata una bella festa? Una da voto massimo?»
«Non ricordo» rispondo senza giri di parole. «Ero troppo ubriaca.»
Lui ride. Il suo atteggiamento mi sorprende. Mi aspettavo un “Tamar è chiaramente un’alcolizzata senza freni, non bisogna mai più permetterle di andare alle feste”.
«Sono felice che tu ci sia andata. Non sottovaluto quanto dev’essere stato difficile per te.»
D’altro canto il dottor Flores svolge il suo lavoro e prova a far liberare Tamar dal suo peso, dal suo senso di colpa per Iris. Domanda qualsiasi cosa nei minimi particolari riguardo le malattie psicologiche e risulta sgradevole agli occhi della ragazzina che, a volte, non lo sopporta perché sembra che niente lo scalfisca, neanche la Bibbia che Tamar gli lancia addosso durante una seduta. Il dottor Flores scava dentro la paziente, la fa interrogare sui suoi gesti, anche quelli più brutti da ricordare, per permetterle una via d’uscita.
«Okay, allora, a parte gli amici, che cos’altro pensiamo dell’autolesionismo?»
Gli dico che l’autolesionismo va a meraviglia, grazie mille.
«Ma che cosa ti dà, in quei momenti? Ti trasmette una bella sensazione?»
Adesso tocca a me ridere. «Mi taglio la pelle. No che non mi trasmette una bella sensazione» rispondo. «È orribile. È questo il punto.»
«Capisco» commenta il dottor Flores. È lui che dovrebbe spiegarlo a me. Sa tutto su come le lame-sulla pelle corrispondano alla storia dei fiotti di endorfine. Me lo ha detto lui all’inizio.
«Allora perché farlo?»
Dopo un po’ di settimane Lime Grove diventa quasi una “casa sicura” e, con l’arrivo di Elle, una ragazzina che soffre di allucinazioni secondo lo psichiatra e che non ha avuto una vita facile, le giornate diventano sempre più movimentate. Elle irradia troppa sicurezza, fa scorrere il tempo più velocemente perché ha molto da dire e quando Tamar è con lei «i problemi vengono eclissati da un velo di positività e bellezza». È Elle che convince lei e Jasper a fuggire da Lime Grove solo per qualche ora, per vedere il mondo là fuori.
Se è così che ci si sente a essere dei fuggitivi, posso farcela. Se essere dei fuggitivi prevede scariche di euforia, spontaneità e grida di gioia, allora posso farcela.
Tra farmaci, amicizie, moti di ribellione e avventure, il racconto del ricovero appare onesto e tagliente. Pagina dopo pagina Ceylan Scott, attraverso la voce di Tamar, svela l’abisso della malattia mentale, distrugge i tabù, fotografa momenti e stati d’animo intensi, caratterizzati da una continua oscillazione fra lo stare bene e lo stare male.
Giochiamo tra la neve come bambini di otto anni. Siamo adolescenti, tutti, ma, rinchiusi come siamo in manicomio, chi può giudicarci se passiamo l’intera mattinata a fare pupazzi di neve? Tiriamo palle di neve contro la finestra mezzo aperta dell’ufficio del dottor Flores, ed è solo quando Jasper fa centro e una si spiaccica sul tappeto sporco che il medico si affaccia con espressione curiosa. Credo stia sorridendo. Forse è perplesso perché la neve sembra essere riuscita a curarci della nostra tristezza in un solo giorno, e i nostri visi arrossati che ridacchiano di lui sono sufficienti a fargli passare il resto della giornata a riflettere. Chiude la finestra salutandoci con la mano e torna alla scrivania.
Guarire o accettare la malattia mentale?
Il percorso intrapreso da Tamar, e da tutti gli altri, è lungo, lento, a tratti rovinoso. Tamar deve ripercorrere momenti dolorosi del passato per liberarsi dal suo segreto, assicurarsi che non sia lei la colpevole della morte di Iris. Passo dopo passo, capitolo dopo capitolo, Tamar accetta lentamente (e a volte con estrema difficoltà) l’aiuto di chi le sta accanto – dal dottor Flores ai pazienti divenuti amici, dai familiari a Toby – e combatte contro i fantasmi della sua angoscia.
Dopo varie analisi e sedute, a Tamar diagnosticano il disturbo borderline della personalità: una condizione psichiatrica situata ai limiti fra le nevrosi e le psicosi (in inglese borderline significa appunto “linea di confine”).
Adesso la protagonista è libera di tornare a casa e di riprendere in mano la sua vita. I disturbi mentali non sono come un braccio rotto, a volte bisogna accettarli e conviverci per sempre.
«Non piangere» dice Jasper, e l’infermiere Will fa apparire dal nulla un fazzoletto. È una cosa che gli infermieri sono bravi a fare, quella. Trovare fazzoletti. «Meglio che queste siano lacrime di gioia. Sei libera, puoi fare quello che ti pare!» Ha ragione. Posso fare assolutamente tutto quello che voglio al mondo.
Con una prosa elegante e diretta che si districa tra capitoli denominati “Oggi” e “Allora”, Ceylan Scott, alla quale è stato recentemente diagnosticato un disturbo borderline di personalità, descrive senza fronzoli, in modo oggettivo e non edulcorato, la vita in un ospedale psichiatrico abitato da personaggi complessi e ben definiti. Un romanzo che è un pugno nello stomaco, sincero e brutale.
Toby mi è d’aiuto, ma non è la mia cura. Non ce ne sono. Tranne una: la cura sono io.